1 / 19

Il cibo nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli

Il cibo nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli. Di Viola Deneb Capurso. Giuseppe Gioachino Belli (Roma, 7/09/1791– Roma, 21/12/1863) fu un poeta italiano, che nei suoi numerosi sonetti in vernacolo romanesco descrisse il popolo della Roma pontificia del XIX secolo. Introduzione.

carlo
Télécharger la présentation

Il cibo nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli

An Image/Link below is provided (as is) to download presentation Download Policy: Content on the Website is provided to you AS IS for your information and personal use and may not be sold / licensed / shared on other websites without getting consent from its author. Content is provided to you AS IS for your information and personal use only. Download presentation by click this link. While downloading, if for some reason you are not able to download a presentation, the publisher may have deleted the file from their server. During download, if you can't get a presentation, the file might be deleted by the publisher.

E N D

Presentation Transcript


  1. Il cibo nei sonetti diGiuseppe Gioachino Belli Di Viola Deneb Capurso

  2. Giuseppe Gioachino Belli (Roma, 7/09/1791– Roma, 21/12/1863) fu un poeta italiano, che nei suoi numerosi sonetti in vernacolo romanesco descrisse il popolo della Roma pontificia del XIX secolo.

  3. Introduzione Nei seguenti sonetti Belli parla del cibo nelle diverse classi sociali: dai personaggi più illustri dei ceti agiati, come i Cardinali e il Papa, ai ceti più umili, come il fruttarolo e la serva, passando per la famiglia, gli amici e la Santa Pasqua. In poche righe, tutte scritte in dialetto romanesco, si possono dunque individuare le disparità tra ricchezza e povertà, ma anche intravedere l’amore e la gioia di chi, sebbene davanti ad un misero pasto, mangia con le persone care. Nell’ultimo sonetto, in maniera umoristica, si descrive il malore dopo un pasto.

  4. Er pranzo de li Minenti Er pranzo de le Minente L’amichi all’osteria La bbona famijja Li polli de li vitturali Er Cardinale de pasto La serva nòva Er pranzo der Vicario Ménica dall’ortolano La Santa Pasqua Er fruttarolo La cuscina der Papa Er mal de petto Indice

  5. C’avessimo?(2) un baril de vin asciutto, (3)du’ sfojje(4) co rragajji(5) e ccascio tosto, (6)allesso de mascello,(7) un quarto(8) arrosto,e ’na mezza grostata (9) ecchete tutto!Ce fussi stato un frittarello, un frutto,o un piattino ppiú semprice e ccomposto!...Cert’antra ggente che ce stiede accostoc’ebbe armanco deppiú fichi e presciutto!Si ppoi vôi ride, mica pan de fornoce diede, sai? ma ppagnottoni a ppeso,neri arifatti (10) de scent’anni e un giorno.Oh, tu azzecchece (11) un po’ cquanto fu speso!...Du’ testonacci (12) a ttesta, o in quer contorno! (13)E cce vonno riannà?(14) Bravo, t’ho ’nteso!(15)E io che mm’ero creso (16)d’impiegà un prosperuccio-lammertini, (17)ciò impeggnato a mmi mojje l’orecchini.Terni, 8 ottobre 1831 - De Pepp’er tosto “Er pranzo de li Minenti(1)” 1. Minenti (da eminenti): così chiamansi coloro che vestono l’abito proprio del volgo romanesco. 2. Avemmo. 3. Vin brusco. 4. Lasagne. 5. Visceri di pollo. 6. Cacio pecorino. 7. Carne di macello dicesi la «carne grossa». 8. Quarto, assolutamente, è un «quarto di bacchio o abbacchio, cioè agnellino da latte». 9. Specie di sfogliata. 10. Stantii. 11. Indovinaci. 12. Testone è una moneta d’argento da tre paoli. 13. Incirca. 14. Riandare, ritornare. 15. Così dicesi da chi non vuol far nulla di quanto udì. 16. Creduto. 17. Vedi la nota… del Sonetto

  6. “Er pranzo de le Minente (1)” Mo ssenti er pranzo mio. Ris’e ppiselli,allesso de vaccina e ggallinaccio,garofolato,(2) trippa, stufataccio, (3)e un spido(4) de sarsicce(5) e ffeghetelli. (6) Poi fritto de carciofoli e ggranelli,certi ggnocchi da fàcce er peccataccio, (7)’na pizza aricresciuta de lo spaccio, (8)e un’agreddorce de ciggnale(9) e ucelli.Ce funno peperoni sott’ascetosalame, mortatella e casciofiore,vino de tuttopasto e vvin d’Orvieto. Eppoi risorio (10) der perfett’amore,caffè e ciammelle: e tt’ho llassato arretocerte radisce da slargatte er core.Bbè, cche importò er trattore?Cor vitturino che mmaggnò con noi,manco un quartin (11) per omo: (12) e cche cce vòi? Terni, 8 ottobre 1831 - D’er medemo 1. Vedi la nota 1 del Sonetto precedente. 2. Garofanato: specie di umido di manzo. 3. Altro umido tagliato in pezzi. 4. Spiedo. 5. Salsicce. 6. Quando è così nominato, intendesi sempre per «fegato di maiale». 7. Peccato di gola. 8. Comperata. 9. Cinghiale. 10. Rosolio. 11. Il quartino era una moneta d’oro del valore di un quarto di zecchino; oggi è rarissima e quasi irreperibile, ma n’è restato il nome di convenzione fra il volgo per dinotare paoli cinque. 12. Per «cadauno»: e in questo senso, il per omo vale anche per «donna».

  7. “L’amichi all’osteria” «Hai raggione per Dio! nun zò ccattive ste sciriole». «E tte piasce er marinato?». «Me tiro un antro pezzo de stufato. Maggnete st’ova che ssò ffresche vive». «Pe mmé, cquanno ho ppijjato antre du’ olive ce n’ho dd’avanzo, ché ssò ggià arrivato. ...No, nun me fà piú bbeve: ho ssiggillato. Chi bbeve pe mmaggnà mmaggnà pe vvive». «Ma eh? ccorpo dell’anima de ghetto! pare er pisscio, sto vin de pontemollo, dell’angelo custode bbenedetto?». «Ohò! cciavemo ancora un antro pollo?! Maggni ala o ccoscia?» «No, nnemmanco er petto: si mme vôi fà sscialà, ttajjeme er collo». Nella locanda di Monterosi, De Pepp’er tosto - 10 ottobre 1831 Il sonetto è rifiutato dal Belli forse perché il dialogo presenta salti un po’ bruschi,come segnalano per esempio i puntini sospensivi in apertura al verso 7,e poco logici. Il verso 8 ha un andamento da proverbio dal significato sottilmente paradossale: siccome si mangia per vivere, chi beve per mangiare beve per vivere;dunque bere è l’attività fondamentale della vita.L’ultimo verso è stato definito da Vigolo come “uno dei più strani versi del Belli,forse rivelatore di una tormentosa sensibilità personale del Poeta stesso”. Vigolo cioè identifica il verso come una nascosta metafora rivelatrice di un aspetto profondo e inconfessato dela sensibilità di Belli, quasi che “tagliarsi il collo” cioè essere costretto a tacere, sia per lui un piacere.

  8. “La bbona famijja” Mi’ nonna a un’or de notte che vviè Ttatase (1) leva da filà, ppovera vecchia,attizza un carboncello, sciapparecchia, (2)e mmaggnamo du’ fronne d’inzalata.Quarche vvorta se fâmo(3) una frittata,che ssi(4) la metti ar lume sce se specchia (5)come fussi (6) a ttraverzo d’un’orecchia:quattro nosce, (7) e la scena (8) è tterminata.Poi ner mentre ch’io, Tata (9) e Ccrementinaseguitamo un par d’ora de sgoccetto, (10)lei sparecchia e arissetta (11) la cuscina.E appena visto er fonno ar bucaletto,’na pissciatina, ’na sarvereggina,e, in zanta pasce, sce n’annamo a letto. 28 novembre 1831 - Der medemo 1. Se. 2. Ci apparecchia. 3. Ci facciamo. 4. Se. 5. È trasparente. 6. Fosse. 7. Noci. 8. Cena. 9. Mio padre. 10. Lo sgoccetto, lo sgoccettare è quel «seguitare a sbevazzare alcun tempo». 11. Rassetta.

  9. “Li polli de li vitturali” Lo sapémo (1) che ttutti sti carrettide gabbie de galline e cceste d’ovaviengheno (2) da la Marca: ma a cche ggiovade sapello a nnoantri (3) poverelli?Pe nnoantri la grasscia nun ze (4) trova.Le nostre nun zò (5) bbocche da guazzetti.Noi un tozzo de pane, quattr’ajjetti, (6)e ssempre fame vecchia e ffame nova.Preti, frati, puttane, cardinali,monziggnori, impiegati e bbagarini:ecco la ggente che ppô ffà li ssciali.Perché ste sette sorte d’assassini,come noantri fussimo animali,nun ce fanno mai véde (7) li quadrini. 28 ottobre 1833 1. Sappiamo. 2. Vengono. 3. Noi altri. 4. Non si. 5. Non sono. 6. Aglietti. 7. Vedere. I vitturali sono i conducenti di veicoli da trasporto

  10. “Er Cardinale de pasto(1)” Cristo, che ddivorà! Ccome ssciroppa (2)quer Cardinale mio, Dio l’abbi in pasce!E la bbumba? (3) Cojjoni si jje piasce!Come ssciúria, (4) per dio! come galoppa!Quello? è ccorpo da fà bbarba de stoppa (5)a un zei (6) conventi: ché ssaría capascede maggnajjese er forno, la fornasce,er zacco, er mulo, e ’r mulinaro in groppa.Lui se sfonna (7) tre llibbre de merluzzo,quann’è vviggijja, (8) a ccolazzione sola:capite si cche stommichi de struzzo? (9)Oh a lui davero er don (10) de l’appititolo sarva dar peccato de la gola,perché appena ha mmaggnato ha ggià smartito. (11) 3 aprile 1834 1. Di buono appetito. 2. Come ingolla! 3. Il bere. 4. Sciuriare, per «bevere con avidità». 5. Fare altrui bara di stoppa, vale: «lasciarlo al secco di tutto». 6. Sei. 7. Si sfonda, si divora. 8. Vigilia. 9. È nota la credenza popolare intorno allo stomaco dello struzzo, capace di digerire il ferro come un marzapane o un berlingozzo. 10. Dono, per «prerogativa». 11. Smaltito.

  11. “La serva nòva” Perché ssò (1) ita via? sò ita viape ’na sciarla c’ha smossa er viscinato.Ma io, nun fo ppe ddí, cc’è bbon Curatoche ppò ttestà (2) ssu la connotta mia.Oh, in quanto ar cuscinà, cquello che ssiape mminestra, allesso, ummido e stufato,nun fo ppe ddí, cce sfido un coco nato,spesciarmente a llestezza e ppulizzia.Poi scopà, sporverà, rrifà li letti,votà, llavà li piatti, fà la spesa,tirà ll’acqua, ssciacquà ddu’ fazzoletti...Lei, siggnora, me provi: e nnun zò Aggnesa, (3)si (4) llei, nun fo ppe ddí, ttra ddu’ mesettinun benedisce er giorno che mm’ha ppresa. 26 giugno 1834 1. Sono. 2. Attestare. 3. Agnese. 4. Se.

  12. “Er pranzo der Vicario” Nun è er primo Vicario né er ziconnoche dde viggijj’e ttempora se sbajja,e cconfonne er merluzzo co la quajja,l’arenga e ’r porco, la vitella e ’r tonno.Fijjo, li Cardinali de sto monno,e ttant’antra conzimile canajja,tiengheno la cusscenza fatta a mmajjada potella stirà ccome che vvonno.E cquesti sò cquell’uteri (1) de ventoche ss’ha d’accompaggnalli co le torcecome fussino un antro (2) Sagramento! Capàsci a un pover’omo che cce storce (3)de fasselo (4) dà in tavola ar momentocuscinato in guazzetto, o in agr’e ddorce. 17 novembre 1834 1. Otri. 2. Altro. 3. Ci storce: ripugna. 4. Di farselo.

  13. “Ménica dall'ortolano” Du’ bbaiocchi d’andivia. (1) E cche mme dai?Quattro pieducci soli? Ôh ssanta fede!Ma ssei matto davero o mme sce (2) fai?Questa, capata (3) ch’è, mmanco se (4) vede.Tu stasera vòi famme (5) passà gguaico la padrona. Ebbè? ccosa succede?Te l’aribbutto llí, Ggiachemo, sai?Presto, a tté, ttira via, ggiú, un antro piede.Da scerto temp’in qua, ppropio, sor coso,ve sete messo sur caval d’Orlanno:come ve sete fatto carestoso!Varda (6) cqui ddu’ bbaiocchi d’anzalata! (7)E aringrazziamo er cefolo: (8) quest’annol’erba è ddiventat’oro, è ddiventata. 19 febbraio 1835 1. Invidia. 2. Mi ci. 3. Mondata. 4. Si. 5. Vuoi farmi. 6. Guarda. 7. Insalata. 8. Ringraziamo il cielo: modo scherzoso.

  14. “La Santa Pasqua” Ecchesce (1) a Ppasqua. Ggià lo vedi, Nino:la tavola è infiorata sana sanad’erba-santa-maria, menta romana,sarvia, perza, vïole e ttrosmarino.Ggià ssò ppronti dall’antra sittimanadiesci fiaschetti (2) e un bon baril de vino.Ggià ppe ggrazzia de Ddio fuma er camminope ccelebbrà sta festa a la cristiana. Cristo è risusscitato: alegramente!In sta ggiornata nun z’abbadi a spesae nun ze penzi a gguai un accidente. (3)Brodetto, (4) ova, salame, zuppa ingresa,carciofoli, granelli e ’r rimanente,tutto a la grolia de la Santa Cchiesa. 19 aprile 1835 1. Eccoci. 2. Quando dicesi assolutamente fiaschetti, s’intende parlare di vino d’Orvieto, o più raramente di aleatico fiorentino. 3. Affatto. 4. Minestra di pane con brodo coagulato per via di uovi.

  15. “Er fruttarolo” Che vve tastate? l’animaccia vostra?Questo cqua nun è er modo e la maggnera (1)d’ammaccamme (2) accusí ttutte le pera.Io la robba la dò ccome sta in mostra.Sin che gguardate er peso a la staderae nun credete a la cusscenza nostra,nun ciarifiàto; (3) ma in che ddà sta ggiostrache cce vienite a ffà mmatina e ssera?Eppoi tante capàte (4) pe’ un bajocco!Caro quer fijjo! dàteje la zzinna.Tenete, sciscio (5) mio, succhiate er cocco.Le pera auffa? (6) povero cojjone!Spassàtelo, cantateje la ninna:Ninna li sonni e ppassa via bbarbone. (7) 26 agosto 1835 1. Maniera. 2. Di ammaccarmi. 3. Non ci rifiato, non replico, non mi oppongo. 4. Scelte: da capare, scegliere. 5. Cicio, nome accarezzativo a’ bambini. 6. Aufo, gratis. 7. Verso che si canta dalle madri e dalle balie romane a’ putti per addormentarli.

  16. “La cuscina der Papa” Co la cosa (1) ch’er coco m’è ccomparem’ha vvorzuto fà vvéde (2) stammatinala cuscina (3) santissima. Cuscina?Che ccuscina! Hai da dí pporto de mare.Pile, marmitte, padelle, callare,cossciotti de vitella e de vaccina,polli, ova, latte, pessce, erbe, porcina,caccia, e ’ggni sorte de vivanne rare.Dico: «Pròsite (4) a llei, sor Padre Santo».Disce: «Eppoi nun hai visto la dispenza,che de grazzia de Ddio sce n’è antrettanto».Dico: «Eh, scusate, povero fijjolo!,ma ccià (5) a ppranzo co llui quarch’Eminenza?».«Nòo», ddisce, «er Papa maggna sempre solo». 25 marzo 1836 1. Per la circostanza. 2. Mi ha voluto far vedere. 3. Cucina. 4. Prosit. 5. Ci ha, ha.

  17. “Er mal de petto” Ggnente, (1) coraggio, sor Andrea. Si (2) è mmaled’arifreddore, se (3) pijja una rapa,se cosce (4) su la bbrascia, (5) poi se capa,e sse maggna a ddiggiuno senza sale.Le rape, sor Andrea, sò ppettorale. (6)E bbe’ cche (7) ppare una materia ssciapapijja un dorcetto ch’è un maggnà da Papa,e vve libbera poi da lo spezziale.Ecco llí la tintora: ebbe una tossa,màa! ddite puro (8) de quelle maliggne,inzino a ffà la sputarola rossa.Ebbè, er medico a ffuria de sanguiggnee io de rape, co ttutta sta sbìossa (9)la tiràssimo (10) fòra; e mmó aritiggne. (11) 13 marzo 1837 1. Niente. 2. Se. 3. Si. 4. Cuoce. 5. Brace, bragia. 6. Sono pettorali. 7. Benché. 8. Pure. 9. Mal grado di tanta furia di morbo. 10. Tirammo. 11. Ritinge.

  18. Bibliografia • G.Giochino Belli, “Tutti i sonetti romaneschi edizione integrale”, Newton Compton Editori, 2005, a cura di Marcello Teodonio • http://it.wikisource.org/wiki/Sonetti_romaneschi • sauvage27.blogspot.com/2008/02/giuseppe-gioac... • www.duesecolidiscultura.it/wp-content/uploads... (visitati il 29/05/2010)

  19. 1913Marmo Roma, piazza SonninoFirmato sul basamento a destra, “M. TRIPISCIANO IDEO’ E SCOLPI’” Come riportato dalla firma sul basamento, il monumento è ideato e scolpito da Michele Tripisciano (Caltanisetta 1860-1913) nel suo ultimo anno di vita. G.G. Belli (1791-1863) – principalmente noto per i suoi sagaci sonetti dialettali, è qui ritratto in eleganti abiti ottocenteschi mentre s’appoggia alla balaustra di Ponte Quattro Capi. Grazie per l’attenzione!

More Related