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Chi è il cristiano? Un uomo che si sente chiamato a vivere la propria vita in Cristo, che in Cristo trova il senso, la direzione, il gusto, il significato della sua vita, anzi, la cui vita interiore è vita in Cristo e vita di Cristo in lui. È un uomo che legge la chiamata come dono e che è cosciente della grandezzae preziosità di tale dono.
Il Nuovo Testamento ama evocare l’Evangelo, il mistero del Regno rivelato da Cristo e consegnato ai credenti, con i termini di «perla preziosa» (Mt 13,45-46), di «tesoro» (Mt 13,44); l’evento pasquale in cui consiste la salvezza è evocato dall’espressione «sangue prezioso di Cristo»; la fede stessa è definita come «molto più preziosa dell’oro» (1 Pt 1,7).
Questo «tesoro» è dunque il dono divino: e il dono non dice mai la grandezza dell’uomo o il suo merito, ma la liberalità e la bontà, la gratuità e l’amore del Donatore.
Questo dono, che non è contraccambiabile, in quanto si sintetizza nel dono del Figlio, consiste nell’intera storia della creazione e della salvezza ricapitolate in Cristo e fa sì che la gratitudine, la dimensione eucaristica, sia l’unica risposta adeguata del credente; il dono del Figlio in effetti porta il credente a cogliere e a vivere la realtà tutta in Cristo e a leggerla come dono.
Questo il dono prezioso e incommensurabile, il dono celebrato nell’Eucaristia, che svela all’uomo la sua vera grandezza: nella sua fragilità e piccolezza egli è amato. Le parole di Dio al popolo di Israele possono essere estese a ogni credente: «Tu sei prezioso ai miei occhi, tu sei degno di stima e io ti amo» (Is 43,4).
L’identità del credente è relazionale, la sua grandezza è tale agli occhi di un Altro, e forse al credente è più essenziale conoscere e credere di essere amato da Dio che non di dover assolvere il comando di amare Dio.
L’umiltà Il tesoro prezioso del credente è ricevuto, non viene da lui stesso e questo pone il cristiano nell’umiltà. L’umiltà è l’autenticità dell’uomo, la realistica accettazione di sé. «O uomo, riconosci di essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti» (Agostino).
L’umile è colui che conosce e accetta se stesso con i precisi limiti e le fragilità che lo contraddistinguono e si riconosce amato esattamente in tale situazione.
Noi siamo amati non nonostante la nostra debolezza, ma nella nostra debolezza, proprio in quella «creta» di cui siamo plasmati. La «creta» indica la condizione di debolezza e fragilità dell’uomo: debolezza che consiste nei concreti limiti creaturali, nella vulnerabilità, e poi nelle precise lacune e negatività che abitano in ciascuno.
Ma esattamente questa «debolezza», questa non-onnipotenza, consente la relazione fra l’uomo e Dio mostrando così la sua forza: forza della debolezza che consente l’agire di Dio nell’uomo.
Le parole del prete protagonista del Diario di un curato di campagna di Bernanos, al termine del suo drammatico colloquio con la contessa, esprimono bene questa realtà: «Oh, miracolo! Essere capaci di donare quello che noi stessi non possediamo. Dolce miracolo delle nostre mani vuote. La speranza che stava avvizzendo nel mio cuore è rifiorita nel suo; lo spirito di preghiera che io pensavo perduto in me per sempre è stato ridato a lei da Dio e - chi mai può dirlo? - forse in mio nome! Signore, sono spogliato di ogni cosa, come tu solo puoi spogliarci!».
La «povera creta» non va dunque intesa come opposta al «prezioso tesoro» allo stesso modo in cui il «materiale» viene opposto allo «spirituale». Anzi, proprio la «creta umana» è il luogo massimamente degno di essere la dimora di Dio tra gli uomini! Questa creta è il luogo di Dio nel mondo, è il luogo dello Spirito! Questo ci rivela l’incarnazione, il cammino di Dio verso l’uomo culminato nella morte di croce.
La preziosa debolezza Sempre nella seconda lettera ai Corinti, Paolo ricorda che la potenza di Dio si manifesta nella fragilità e nella debolezza dell’uomo (cfr. 2Cor 12,9-10). Quella debolezza che è anche enigma, incomprensibilità di noi a noi stessi.
Al credente è chiesta l’operazione di assunzione dei lati oscuri e tenebrosi che sono in lui e che egli è istintivamente portato a rimuovere, a non voler vedere.
Noi temiamo la creta di cui siamo fatti, temiamo la debolezza e le situazioni di crisi e di fragilità: ci vuole molta forza per saper affrontare, riconoscere e accettare con serenità e responsabilità la propria debolezza.
Isacco il Siro ha scritto che «è più grande colui che sa vedere in faccia i propri peccati, di colui che vede gli angeli».
Noi tendiamo sempre a mostrarci forti, grandi, potenti, senza difetti, non di creta ma corazzati, ma così da un lato mentiamo al Dio creatore e illudiamo noi stessi coltivando un’immagine di noi non reale, e dall’altro ci rendiamo poco amabili, affermiamo di non aver bisogno degli altri e di essere autosufficienti.
Ma proprio allora noi poniamo impedimento alla potenza di Dio, alla potenza del suo amore che, una volta accolto, può trasfigurare un uomo. O meglio, può renderlo cosciente che nella sua «creta» egli è portatore di un «tesoro», anzi che quel tesoro non esisterebbe e non sarebbe tale senza quella creta.
Gesù e la felicità Gesù: un uomo felice?
Gesù è stato un uomo felice? Ha vissuto una vita felice? Ha perseguito la felicità nel suo vivere? Domande che suonano strane. E a cui si può cercare di trovare una prima balbettante risposta ricordando che se Gesù - come ricordano i vangeli - ha provato angoscia e paura, tristezza e amarezza, ira e sdegno, ha però anche saputo giubilare ed esultare.
Uomo, ha provato le umane emozioni. E le ha anche espresse. Gesù ha pianto, ci ricordano i vangeli. Ha anche riso Gesù? Questo i vangeli non lo dicono. È una tradizione spesso ripetuta (e riportata già da Giovanni Crisostomo) afferma che «Gesù non ha mai riso». Al che vien da chiedersi come fosse la sua presenza «conviviale» (ampiamente attestata dai vangeli) e, in particolare, la sua partecipazione a banchetti nuziali.
Gesù ha conosciuto la bellezza e la gioia della tavola condivisa e dell’amicizia, del voler bene anche a persone che non facevano parte del gruppo dei Dodici («Gesù amava Marta, sua sorella e Lazzaro»: Gv 11,5). Certo, se Gesù era celibe, non ha sperimentato la felicità di una famiglia propria, di generare figli e di amare una donna.
Ogni esperienza umana è parziale, e l’esperienza dell’amore e della felicità avviene in un frammento: noi umani esperimentiamo il tutto (dell’amore) e la pienezza (della felicità) nel frammento.
Ma non è certo recensendo tutte le possibili esperienze di felicità che l’uomo conosce e applicandole a Gesù che noi possiamo trovare una risposta alla nostra domanda. Che richiede un altro percorso e che deve attenersi a quanto dicono i vangeli senza cercare di colmare con la fantasia il loro non-detto.
Le beatitudini come esperienza «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli» (Mt 5,3). Le beatitudini sono pronunciate a partire da un’esperienza, da un vissuto. La dichiarazione («Beati») e la motivazione («perché») dicono un lavoro interiore e spirituale di chi formula quelle espressioni che trovano il loro fondamento anzitutto nella sua stessa esperienza.
Per Gesù povertà in spirito e mitezza, misericordia e persecuzione a causa della giustizia, sono state occasione di beatitudine. Dunque, prima di essere un’esortazione, esse sono rivelazione del vissuto di Gesù, della sua felicità.
Felicità e filialità La felicità di Gesù è connessa al suo appartenere al Padre, al suo vivere nello spazio del Padre (Lc 2,49). La coscienza della sua filialità ha accompagnato il suo cammino umano e scandito la sua preghiera.
L’etimologia del termine felicità rinvia alla radice indoeuropea fe che designa fecondità e che si trova nelle parole femina, fetus, ferax. Generare, dare frutti sono immagini attinenti alla felicità. Ma anche nutrire: filius deriva dal verbo felo, che significa nutrire.
E se andiamo al campo semantico della felicità espressa in una lingua semitica come l’ebraico (o l’aramaico, la lingua di Gesù) ci imbattiamo ugualmente in immagini di fecondità e di abbondanza, di fertilità e di vita, di pace, nel senso ampio e profondo del biblico shalom.
Del resto, la felicità «non la si ha, ma in essa si è. Felicità non è che l’esser circondati, l’“essere dentro”, come un tempo nel grembo della madre» (Theodor W. Adorno).
Il grido di giubilo di Gesù è rivolto al Padre (Lc 10,21-22; Mt 11,25-27) e canta l’ineffabile relazione che lo unisce a lui, all’Abbà a cui sempre si è rivolto nutrendo con lui un rapporto di intimità che gli ha dato forza, riposo, discernimento, consolazione e rifugio.
Gesù riconosce la sorgente della sua felicità nella relazione con il Padre che ha fecondato la sua vita, ma Gesù ha vissuto la felicità anche fecondando la vita di altri: guarendo, perdonando, predicando, ascoltando. Gesù stesso ha detto: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35).
Se la filialità divina che Gesù vive gli fa conoscere la felicità come dono e come grazia, il suo donare fecondità alla vita di altre persone é felicità come virtù, come atto con valenza etica, come pro-esistenza, come dedizione. Ed è un dare felicità ad altri.
Gratuità e gratitudine La coscienza del rapporto con il Padre Creatore e Signore fonda l’attitudine di contemplazione con cui Gesù si pone di fronte al mondo e alle creature (cfr. Mt 6,25-34): la beatitudine di Gesù è anche espressa da questo atteggiamento di rispetto radicale delle cose e del mondo e di rifiuto del consumo e della prevaricazione.
La felicità di Gesù si declina così come comunione e si fonda sulla coscienza che il mondo e gli uomini sono per lui dono del Padre. E si esprime come gratitudine. Lode, benedizione e rendimento di grazie sono linguaggio di Gesù non solamente puntuale, che nasce cioè di fronte a episodi o eventi particolari, ma caratterizzano il suo atteggiamento spirituale nei confronti della realtà tutta.
E la gratitudine, l’atteggiamento eucaristico, è elemento decisivo per discernere la felicità. «Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine» (Theodor W. Adorno). Siamo grati di essere felici.
Felicità come ascesi Per Gesù la felicità è anche ascesi e capacità di rinuncia, rifiuto delle illusioni di felicità insite nell’idolatria, cioè nella cupidigia, nell’accaparramento insensato di beni, nella violenza, nella menzogna (cfr. Mt 5,20ss.).
Questa ascesi tende all’essenziale, alla purezza di cuore e custodisce la libertà dell’uomo, il suo non lasciarsi dominare da idoli del cuore e fonda il senso di integrità personale e la serenità, così essenziali per la felicità.
Così, Gesù appare anche come maestro di felicità: egli indica all’uomo la via per la felicità. In questo senso si può recuperare la traduzione (in verità più seducente che convincente) delle beatitudini attuata da André Chouraqui. Invece di «beato» egli traduce «en marche» («in cammino!»; «avanti!»).
Al di là della plausibilità filologica, è interessante il dinamismo di cui l’espressione si tinge. La coscienza della sua appartenenza al Padre colora la libertà di Gesù anche della dimensione dell’esigenza profetica che lo porta a scagliarsi contro chi sfrutta e opprime il prossimo, contro ogni forma di ipocrisia e di menzogna. Gesù non tollera gli attentati alla dignità della persona umana e cerca di restituire le condizioni per una vita piena a chi ne è privato.
Il dono di sé Nella sua fede e relazione personale con il Padre egli integra nella felicità anche l’esperienza della sofferenza e del dolore. Il dono della vita come segreto della felicità dell’esistenza lo porta a dare senso anche a tante situazioni dolorose o contraddittorie.
Se la felicità risiede nella donazione di sé e nel reciproco affidamento, essa comporta inevitabilmente anche dimensioni di sofferenza. Donare vita è anche donare la vita, perderla, morire.
E Gesù, secondo Luca, vive l’affidamento al Padre anche nel momento supremo della morte: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Gesù mostra di avere avuto una ragione per cui vivere e dunque anche una ragione per cui morire, per cui dare la vita.
Lungi dall’essere un evitare la sofferenza, la felicità vissuta e insegnata da Gesù implica il dono della vita. E si impernia proprio intorno alla categoria del dono. Dono di tutto ciò che Gesù ha ricevuto da Dio, dono di tutto se stesso che egli fa agli uomini. E questa semplificazione della vita come dono è la felicità vissuta e insegnata da Gesù.
Ha scritto fr. Roger di Taizé: «Ciò che rende felice un’esistenza è avanzare verso la semplicità: la semplicità del nostro cuore e quella della nostra vita. Perché una vita sia bella, non è indispensabile avere capacità straordinarie o grandi possibilità: l’umile dono della propria persona rende felici».
La felicità nell’amore Sintetizzando l’intera volontà di Dio nell’amore (Mt 22,34-40), Gesù ha perseguito l’amore nel suo vivere, ha cercato di amare Dio e gli uomini. E l’amore è esperienza etica ed estetica, di bontà e di bellezza, in cui Gesù ha trovato la sua felicità.
E se la bellezza è profezia di felicità, l’agire «bello» e gratuito di Gesù è anticipazione di felicità futura. La sua prassi di incontro con gli umani, prassi di guarigione e perdono che culmina nella sua morte e resurrezione, diviene annuncio del Regno, apertura del futuro per chi ne è privato, dono di speranza per chi nell’oggi non intravede né senso né felicità. Diviene, grazie allo Spirito santo, dono della filialità divina a ogni uomo.