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I REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

I REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE. TIFORMA c/o UNIONCAMERE Firenze, giugno - luglio 2013 Relatori Avv. Agnese Del Nord Amministrativista - Consulente per Enti Locali e Aziende

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I REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

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Presentation Transcript


  1. I REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE TIFORMA c/o UNIONCAMERE Firenze, giugno - luglio 2013 Relatori Avv. Agnese Del Nord Amministrativista - Consulente per Enti Locali e Aziende Professore a contratto in Legislazione urbanistica e edilizia presso l'Università La Sapienza, Roma, Facoltà di Architettura Avv. Gabriele Martelli Amministrativista e penalista – Consulente per Enti Locali e Aziende

  2. CAP. I. GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL REATO

  3. I COMPORTAMENTI ILLECITI CHE COSTITUISCONO REATO Prima di esaminare i vari singoli reati occorre necessariamente illustrare, seppur brevemente, gli elementi costitutivi dei reati, al fine di tratteggiare i presupposti in ragione dei quali un fatto è qualificabile come REATO. Non tutti gli illeciti rilevano sul piano del diritto penale, soltanto alcuni comportamenti sono infatti penalmente rilevanti (gli altri, possono essere fonte di responsabilità di altra natura, per esempio civile/disciplinare/amministrativa...)

  4. PAR. I.I. DISAMINA DEI SINGOLI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL REATO Vigente il principio di tassatività e di riserva di legge, non vi è reato se non ricorrono nella fattispecie concreta tutti gli elementi costitutivi del reato stesso individuati dalla fattispecie astratta. Gli elementi costitutivi del reato sono: • Fatto tipico • Antigiuridicità • Colpevolezza

  5. A) Fatto Tipico Affinché sussista un reato, la fattispecie concreta deve essere identica alla fattispecie astratta, prevista appunto come reato. Ciò significa che deve verificarsi un fatto tipico: è tale un fatto quando contiene l’insieme di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi che servono per la corrispondenza dello stesso alla Fattispecie di reato descritta nella norma incriminatrice. La fattispecie è articolata in due diverse componenti, anch'esse composite, parimenti rilevanti • oggettiva (l'insieme di tutti gli elementi materiali): soggetto attivo; soggetto passivo e/o danneggiato dal reato; oggetto o bene giuridico; oggetto materiale; condotta; rapporto di causalità materiale; evento. • soggettiva (l'insieme degli elementi riferiti al nesso psichico) coscienza e volontà, dolo, colpa.

  6.   A) Soggetto attivo. L’art. 27 della Costituzione sancisce il principio di personalità della responsabilità penale secondo cui la natura strettamente personale del reato implica che nessuno possa essere considerato responsabile per un fatto compiuto da altre persone. Da tale principio consegue che tutte le persone fisiche possono essere considerate soggetti attivi del reato (l’età, le situazioni di anormalità psico-fisica e le immunità non escludono la sussistenza del reato ma incidono solo ed esclusivamente sull’applicabilità o meno della sanzione penale) mentre resterebbero escluse da responsabilità penale le persone giuridiche (societas delinquere non potest, recita un antico brocardo latino).

  7. Diverse sono state le opinioni della dottrina su come potesse conciliarsi il principio di personalità della responsabilità penale ovvero di colpevolezza con la natura e la struttura della persona giuridica. L’orientamento prevalente preferisce parlare in questi casi di responsabilità amministrativa dell’ente collettivo, la quale comunque assume rilevanza in veste penale dato che anche tale responsabilità si lega ad un fatto di reato ed il suo accertamento avviene proprio nell’ambito del processo penale. (Responsabilità amministrativa per il fatto del dipendente D.LGS. 231/01)

  8. B) Soggetto passivo: E’ la persona fisica o giuridica titolare del bene leso. Persona offesa. Il danneggiato può essere anche un soggetto diverso dalla persona fisica sulla quale ricade l'offesa conseguente al reato. È il soggetto relativamente al quale il fatto reato, seppure direttamente verificatosi su di una persona fisica, produce altresì danno per una ulteriore e/o diversa persona fisica. C) Oggetto o bene giuridico. E’ l’oggetto della tutela della norma in relazione anche alle scelte operate dal legislatore sulla base dei Principi di: legalità e riserva di legge; frammentarietà e sussidiarietà del diritto penale; tassatività della norma. Certezza del diritto.

  9. La condotta e l’evento. La CONDOTTA è il comportamento posto in essere dal soggetto attivo del reato. Per quanto concerne l'EVENTO invece, sussistono due concezioni prevalenti. Concezione naturalistica: l'evento consiste nella modificazione della realtà esteriore. Possono esistere dei reati senza evento come ad es. nell'ipotesi dei reati di mera condotta in cui si ha la consumazione del reato con la semplice realizzazione della condotta tipica (es. omissione di referto). Concezione giuridica: l'evento è l'offesa del bene o il vulnus al valore tutelato dalla norma penale, offesa che può manifestarsi nelle due forme della lesione o della messa in pericolo. Non possono esistere dei reati senza evento perché lo stesso reato si sostanzia nell'aggressione di un bene giuridico.

  10. A seconda del comportamento del soggetto agente, si possono distinguere i reati commissivi (quando l’evento si verifica per un comportamento attivo e volontario del soggetto agente che provoca una lesione a un bene tutelato giuridicamente) e i reati omissivi (quando il danno si concretizza a seguito di una condotta omissiva del soggetto agente). Per quest’ultima ipotesi l’Ordinamento impone a chi si trova in determinate situazioni, di agire in un determinato modo. Ai sensi di quanto dispone il secondo comma dell’art. 40 c.p. “non impedire un evento, che si aveva l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” . È dunque qualificabile come reato: sia l'azione che non avrebbe dovuto compiersi, sia l'omissione dell'azione che avrebbe invece dovuto essere compiuta.

  11. Rapporto di causalità. Il rapporto di causalità esprime, il nesso che lega la condotta all’evento in un rapporto tale per cui se la condotta non vi fosse stata, non vi sarebbe stato neppure l'evento. La sussistenza del nesso di causalità incide, dunque, in modo decisivo sulla realizzazione del fatto tipico, il quale consisterà proprio nell’abbinamento tra condotta umana e situazione di danno o di pericolo causalmente concatenati fra loro

  12. 2. ELEMENTI DELLA FATTISPECIE SOGGETTIVA: A) Coscienza e volontà (42 c.p.) costituiscono il requisito minimo di attribuibilità psichica del fatto al soggetto. B) Dolo (43 c.p. comma 1) Il dolo è l’elemento costitutivo del fatto illecito ed è la forma più grave in cui quest’ultimo può realizzarsi. Il reato è doloso quando il soggetto agente ha piena coscienza e volontà delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano. Per l'esistenza del dolo si richiede un duplice coefficiente psicologico: la rappresentazione e la volizione del fatto antigiuridico. Art. 43 c.p. "Il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione o dell'omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente previsto (rappresentazione) e voluto (volizione) come conseguenza della propria azione od omissione".

  13. Il momento rappresentativo del dolo. Perché sorga una responsabilità dolosa occorre in primo luogo che il soggetto si sia rappresentato (abbia preveduto) il fatto antigiuridico. Il momento rappresentativo del dolo esige la conoscenza selettiva (previsione) di tutti gli elementi del fatto concreto che integra una specifica figura di reato: e tale conoscenza deve sussistere nel momento in cui il soggetto inizia l'esecuzione dell'azione tipica. Il momento rappresentativo del dolo si considera di regola integrato anche nei casi di dubbio, perché chi agisce in stato di dubbio (es.: chi sottragga una cosa mobile altrui, essendo in dubbio se si tratti di una cosa propria o altrui) ha un'esatta rappresentazione di quel dato della realtà, sia pure coesistente con una falsa rappresentazione di quel dato. Non vi è invece la rappresentazione del fatto antigiuridico necessaria per la sussistenza del dolo quando l'agente versa in errore sul fatto (art. 47 c.p.): quando cioè, l'agente, non si rappresenti almeno uno degli elementi del fatto a causa di un'errata percezione sensoriale (errore di fatto) o di un'errata interpretazione di norme giuridiche o sociali (errore di diritto).

  14. Art. 47 c.p. "L'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell'agente; se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo". Es. di errore di fatto che impedisca all'agente di rappresentarsi il fatto concreto che in effetti va poi realizzato: un cacciatore crede di vedere agitarsi dietro un cespuglio un cinghiale, mentre (invece) si tratta di un altro cacciatore (errore di fatto determinato da una falsa percezione della realtà). Quello che causa lo sparo è la morte di un uomo, ma quel che si è rappresentato l'agente è un fatto diverso, l'uccisione di un animale; il cacciatore quindi non risponderà di omicidio doloso (perché l'errore di fatto esclude il dolo), ma, eventualmente di omicidio colposo (per la negligenza del suo comportamento). L'errore sul fatto dovuto ad un erronea percezione della realtà esclude il dolo; può però residuale una responsabilità per colpa, se all'agente si può muovere il rimprovero di non aver impiegato la diligenza o l'attenzione che avrebbe impiegato al suo posto un agente modello e che egli avrebbe consentito di rendersi conto di commettere quel fatto che ha in effetti realizzato (si sarebbe reso conto che dietro l'albero non c'era un animale bensì un uomo). Quindi, l'errore di fatto esclude la punibilità di un reato a titolo di dolo ma, se il fatto è punito anche a titolo di colpa, e questa sussiste, si risponderà di reato colposo. Art. 47 c.p. "L'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato".

  15. Il momento volitivo del dolo. Il dolo non si esaurisce nella rappresentazione del fatto: perché vi sia dolo, il soggetto deve aver voluto la realizzazione del fatto antigiuridico che si era previamente rappresentato, cioè deve aver deciso di realizzarlo. Tale volontà deve essere presente nel momento in cui il soggetto agisce. La decisione (volontà) di compiere il fatto antigiuridico, può essere la conseguenza immediata di un improvviso impulso ad agire (dolo d'impeto), o può essere presa e tenuta ferma fino al compimento dell'azione per un apprezzabile lasso di tempo (dolo di proposito). Il momento volitivo del dolo può assumere tre forme: - dolo intenzionale: si configura quando il soggetto agisce allo scopo di realizzare il fatto. Non è necessario che la realizzazione del fatto rappresenti lo scopo ultimo perseguito dall'agente, potendo essere anche uno scopo intermedio (ad es., si provoca intenzionalmente la morte della guardia del corpo di un uomo politico, all'ulteriore scopo di procedere al sequestro di quest'ultimo). Non è necessario che la causazione delle evento perseguito dall'agente sia probabile (vi è dolo intenzionale di omicidio anche se la persona uccisa, e che si intendeva uccidere, si trovava ad una distanza ai limiti della portata balistica dell'arma impiegata dall'agente). (In una più ampia serie di casi) Nei reati a dolo specifico, caratterizzati dalla presenza nel dettato normativo di formule quali "al fine di", "allo scopo di", "per"... il legislatore richiede che l'agente commetta il fatto avendo di mira un risultato ulteriore, il cui realizzarsi non è necessario per la consumazione del reato (es. il delitto di strage, che è integrato da colui che, al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità. Ivi l'agente deve compiere atti pericolosi avendo di mira la morte di almeno un uomo, ma il reato è consumato anche se tale evento non si verifica: l'eventuale morte di una o più persone comporta solo un aggravamento della pena). (Nella maggior parte dei casi) Nei reati a dolo generico, le finalità perseguite dall'agente con la commissione del fatto sono irrilevanti per l'esistenza del dolo (es.: il dolo di omicidio consiste e si esaurisce nella rappresentazione e volizione di cagionare la morte di un uomo e le eventuali finalità perseguite dall'agente potranno rilevare solo ai fini della commisurazione della pena).

  16. - dolo diretto: si configura quando l'agente non persegue la realizzazione del fatto, ma si rappresenta come conseguenza certa o comunque probabile al limite della certezza. Un primo esempio di dolo diretto in relazione ad un presupposto della condotta ("cosa proveniente da delitto") può essere modellato sulla ricettazione: si pensi ad un antiquario che sappia per certo che un determinato quadro è stato rubato e con questa piena consapevolezza decida di acquistare il quadro; (presupposto della condotta "cosa proveniente da delitto"; si rappresenta come certa che la cosa provenga da delitto). Un secondo esempio di dolo diretto relativo all'evento: l'armatore che per conseguire il premio di un'assicurazione faccia collocare su una propria nave una bomba a orologeria tarata per esplodere durante una traversata: la morte di uno o più membri dell'equipaggio non rappresenta il fine perseguito dall'agente, ma è presente nella mente di questi come una conseguenza pressoché certa della sua azione (tanto basta per integrare il dolo di omicidio nella forma del dolo diretto).

  17. - dolo eventuale (o indiretto): si configura quando il soggetto si rappresenta come seriamente possibile (non come certa) l'esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell'evento come conseguenza dell'azione e, pur di non rinunciare all'azione e ai vantaggi che se ne ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi (il soggetto agisce costi quel che costi, mettendo cioè in conto la realizzazione del fatto). "Sia presente o meno quella circostanza, avvenga questo o quest'altro, io agisco comunque" (notiamo che il dolo eventuale è caratterizzato dall'accettazione del rischio del verificarsi del fatto). Primo es. di dolo eventuale relativo ad un presupposto della condotta: sussiste il dolo eventuale di furto, rispetto all'elemento dell'attività della cosa, in un caso in cui l'agente dubiti di aver trasferito per contratto a Tizio la proprietà della cosa, ma, essendo fortemente interessato a rientrarne in possesso, decida comunque di sottrarre la cosa a Tizio, accettando l'eventualità che la cosa sia altrui. Secondo esempio di dolo eventuale relativo all'evento: esiste il dolo eventuale di omicidio se l'agente, animato dalla finalità di creare panico nella collettività, colloca in una piazza una bomba programmata per deflagrare a tarda notte: a quell'ora la presenza di passanti è possibile (non certa), ma la decisione dell'agente di collocare e far scoppiare la bomba è stata presa accettando l'eventualità che l'esplosione provochi la morte di un eventuale passante: piuttosto di rinunciare all'azione terroristica, l'agente non è arretrato di fronte alla prospettiva della morte del passante. Quando il fatto è punito sia se commesso con dolo sia se commesso con colpa, il dolo eventuale rappresenta la linea di confine che separa l'area della responsabilità per dolo da quella della responsabilità per colpa. Il dolo eventuale va nettamente distinto dalla colpa cosciente (colpa con previsione dell'evento). I due criteri d'imputazione della responsabilità (dolo eventuale, colpa cosciente) hanno in comune l'elemento della previsione dell'evento, ma presentano tratti ulteriori profondamente diversi: - nella colpa cosciente l'agente si rappresenta il possibile verificarsi dell'evento, ma ritiene per colpa che non si realizzerà nel caso concreto, e ciò in quanto, per leggerezza, sottovaluta la probabilità del suo verificarsi ovvero sopravvaluta le proprie capacità di evitarlo; - nel dolo eventuale l'agente ritiene seriamente possibile la realizzazione del fatto ed agisce accettando tale eventualità.

  18. Oggetto del dolo. La rappresentazione e la volizione devono avere per oggetto non già gli elementi descritti in astratto dalla norma incriminatrice, bensì il fatto concreto che corrisponde alla figura legale del fatto incriminato: l'agente, quindi, può anche ignorare l'esistenza della norma che descrive il fatto da lui realizzato (ovvero può interpretarla erroneamente). Tutto ciò non toglie nulla né aggiunge nulla all'esistenza del dolo. Nei reati a dolo generico oggetto della rappresentazione e della volizione è solo il fatto concreto che integra gli estremi del fatto descritto dalla norma incriminatrice (fini ulteriori perseguiti dall'agente come conseguenza del fatto sono al di fuori dell'oggetto del dolo e, al massimo, rileveranno come motivi che aggravano o attenuano la pena); Nei reati a dolo specifico oggetto del dolo è sia il fatto concreto corrispondente a quello descritto dalla norma incriminatrice, sia l'evento, che l'agente deve perseguire come scopo e la cui realizzazione è irrilevante per la consumazione del reato.

  19. Il dolo e l'erronea supposizione della presenza di cause di giustificazione. Art. 59. 4 c.p.: "Se l'agente ritiene per errore che esistono circostanze di esclusione della pena (cause di giustificazione), queste son sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo". Il dolo è rappresentazione e volizione di un fatto antigiuridico. L'erronea supposizione di trovarsi in una situazione che, se esistesse realmente, integrerebbe gli estremi di una causa di giustificazione riconosciuta dall'ordinamento esclude il dolo (se però l'erronea supposizione della presenza di una causa di giustificazione è stata determinata da colpa, perché nessuna persona ragionevole sarebbe caduta in quell'errore, il fatto antigiuridico viene addebitato all'agente a titolo di colpa, a condizione che quel fatto sia previsto dalla legge come delitto colposo). L'ipotesi delineata dall'art. 59. 4 c.p. è quella dell'agente che erroneamente supponga l'esistenza nella realtà degli estremi di una causa di giustificazione riconosciuta dall'ordinamento. Altra cosa è invece l'ipotesi in cui l'agente supponga l'esistenza di una causa di giustificazione non contemplata dall'ordinamento ovvero ritenga erroneamente che una causa di giustificazione abbia limiti più ampi di quelli previsti dall'ordinamento: queste ultime ipotesi, estranee all'art. 59. 4 c.p., sono invece riconducibili alla disciplina dell'art. 5 c.p., trattandosi di errori sulla legge penale, che rileveranno se e in quanto scusabili, cioè evitabili con la dovuta diligenza.

  20. Il dolo nei reati omissivi. Quanto al momento rappresentativo (del dolo). 1) Il soggetto che ha l'obbligo di agire deve innanzitutto essere a conoscenza, anche in forma dubitativa, dei presupposti di fatto dai quali scaturire il dovere di agire (ciò vale sia per i reati omissivi propri, sia per quelli omissivi impropri). Es.: il dolo di omissione di soccorso (reato omissivo proprio) esige (infatti) che il soggetto si renda conto di trovarsi di fronte ad un fanciullo minore di anni dieci o ad una persona incapace di provvedere a se stessa, che siano stati abbandonati o smarriti, ovvero ad un corpo che sia o sembri in animato, o, ancora, ad una persona ferita o altrimenti in pericolo. 2) In secondo luogo, il soggetto deve sapere qual è l'azione da compiere. Es. chi si imbatte nel minore o nell'incapace deve sapere che deve avvertire la pubblica Autorità...

  21. Colpa ( 43 c.p. comma 3): La colpa si realizza quando il soggetto attivo commette un reato non perché aveva la volontà di provocalo ma perché non ha utilizzato la dovuta e richiesta diligenza. La colpa può essere: generica quando deriva da imprudenza, negligenza o imperizia; specifica quando deriva dall’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline ovvero di norme che impongono determinate cautele; propria quando l’evento non è voluto dall’agente; impropria quando l’evento è voluto dall’agente ma non tanto da farlo rientrare nell’ipotesi del dolo; incosciente quando manca la volontà di cagionare un evento e la previsione dello stesso; cosciente quando manca la volontà ma non anche la previsione; professionale quando riguarda attività professionali di per sé pericolose ma che l’Ordinamento consente e autorizza nel loro svolgimento in quanto produttive di risultati ritenuti socialmente utili.

  22. Cause di esclusione della tipicità: Sono cause in presenza delle quali viene meno la colpevolezza (elemento soggettivo) del reato. Le cd. scusanti possono essere distinte in quelle che: - determinano l’esclusione del nesso psichico: incoscienza indipendente da volontà: il soggetto pone in essere una condotta criminosa trovandosi in uno stato di incoscienza; caso fortuito o forza maggiore (art. 45 c.p.): “non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore”. Il primo caso (caso fortuito) non è sempre relativo alla mancanza di colpevolezza e si verifica quando il fatto (evento lesivo) deriva dall’incrocio tra un accadimento naturale e la condotta umana. Il secondo (forza maggiore) invece si verifica quando la volontà del soggetto viene annullata giacché lo stesso è costretto da una forza esterna che, per il suo potere superiore, inevitabilmente, lo obbliga a compiere l’azione incriminata dall’Ordinamento; costringimento fisico (art. 46 c.p.): ”non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto, mediante violenza fisica, alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi. In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza”. E’ la tipica ipotesi di forza maggiore in cui la forza esterna è determinata dalla violenza fisica di un altro soggetto. Il reato quindi non viene commesso da chi agisce materialmente ma da chi ha posto in essere la costrizione. - Quelle che determinano la mancanza di dolo e colpa: caso fortuito (art. 45 c.p.): si verifica quando un evento dannoso si realizza a causa di un comportamento dell’agente posto in essere senza la sua volontà né da lui causato per imprudenza e/o diligenza (es. ferito da una terza persona che muore dopo il ricovero a causa di un incendio fortuitamente scoppiato in ospedale). Il caso fortuito non esclude l’esistenza dell’azione ma impedisce che l’agente possa essere chiamato a rispondere dell’evento cagionato con il concorso di fattori che esulano dall’ordine normale delle cose; errore sul fatto costituente reato (art. 47 c.p.) l’’errore sul fatto si ha quando il soggetto che agisce ha un’errata percezione della realtà, è cioè convinto di porre in essere un fatto concreto diverso da quello vietato dalla norma penale. Per essere rilevante l’errore deve essere essenziale (cadere cioè su uno o più elementi essenziali richiesti per la sussistenza del reato) e scusabile.

  23. B) Antigiuridicita’ Qualora il fatto umano, si configura come fatto tipico, perché possa sussistere un illecito penale, lo stesso deve essere anche antigiuridico, ossia, deve essere realmente contrario ad una norma di legge e portatore di una lesione del bene giuridico protetto dall'ordinamento . Si ricorre a questo requisito per introdurre accanto al fatto umano e alla colpevolezza un elemento negativo nella struttura del reato cioè l'assenza di scriminati: cause di esclusione del reato. Le cause di esclusione del reato sono tassativamente individuate dalla legge ed escludono l’antigiuridicità di una condotta che, in loro assenza sarebbe penalmente rilevante e sanzionabile. Sono situazioni normativamente previste in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico. In presenza di tali circostanze, infatti, una condotta (altrimenti dalla legge punibile), diviene lecita e ciò in quanto una norma, desumibile dall’intero ordinamento giuridico, la ammette e/o la impone. Le cause di giustificazione sono desumibili dall’intero Ordinamento giuridico e, pertanto, la loro efficacia non è limitata al solo diritto penale ma si estende a tutti i rami del diritto (civile e amministrativo), si tratta tra le altre del Consenso dell’avente diritto della legittima difesa (52 c.p.); dello Stato di necessità (54 c.p.) ecc.

  24. C) Colpevolezza La colpevolezza è un concetto giuridico del diritto penale che racchiude il complesso degli elementi soggettivi sui quali si fonda la responsabilità penale. Tale concetto, pur non essendo esplicitato nel nostro ordinamento giuridico (il codice penale italiano,infatti, non utilizza questo termine), ne rappresenta un imprescindibile fondamento giacché ha per funzione la delimitazione dell'area del penalmente illecito e costituisce il presupposto per l'applicabilità della pena.

  25. PAR. I.II. LE CONSEGUENZE DEL REATO. La pena In diritto penale, la pena è la conseguenza giuridica della violazione di un precetto penale. Caratteristica essenziale è l'afflittività; essa consiste, nella privazione o diminuzione di un bene individuale (libertà, vita, patrimonio).La pena viene applicata dall'autorità giudiziaria con le forme e le garanzie scaturentidal processo penale. La pena può essere definita come la sofferenza comminata dalla legge penale ed irrogata dall'autorità giudiziaria mediante processo a colui che viola un comando o un divieto della legge medesima.   I principi che regolano la pena sono: - il principio di personalità: la pena è personalissima e colpisce solo l'autore del reato art. 27 Cost.; - il principio di legalità, che in sede penale si specifica in riserva di legge (la pena non può essere comminata da fonti sub legislative), tassatività-determinatezza (divieto di interpretazione analogica sfavorevole al reo) e favor rei (divieto di applicazione retroattiva sfavorevole al reo e, viceversa, applicazione retroattiva della medesima laddove favorevole); - il principio di inderogabilità: una volta minacciata la pena deve essere applicata all'autore della violazione (ma vi sono deroghe con l'introduzione delle liberazioni condizionali e del perdono giudiziale); - il principio di proporzionalità: la pena deve essere proporzionata al reato. Costituiscono deroga a tale principio l'aumento facoltativo di pena previsto per i recidivi, l'art. 133 c.p. impone al giudice di tener conto, nell'applicazione della pena, anche della capacità criminale del reo.

  26. Tipi di pene Le Pene principali sono per i delitti : ergastolo, reclusione e multa E per le contravvenzioni: arresto ed ammenda Le Pene accessorie sono: interdizione o sospensione dai P.U., interdizione o sospensione dalla professione, interdizione o sospensione da uffici direttivi di persone giuridiche ed imprese, incapacità di contrattare con la P.A., decadenza o sospensione dalla potestà genitoriale, interdizione legale, estinzione del rapporto di lavoro o di impiego, pubblicazione della sentenza.(artt.29/36 c.p.)

  27. CAP. II. I REATI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

  28. PAR. II.I. PREMESSA. I reati contro la pubblica amministrazione sono suddivisi in due settori. Da un lato si collocano i reati che rappresentano un’aggressione ad interessi della pubblica amministrazione che proviene dall’interno della stessa, cioè commessi da soggetti che appartengono alla pubblica amministrazione. Si tratta di reati propri commessi da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (articolo 314-335). E’ poi prevista un a seconda categoria di reati commessi da privati ai danni della pubblica amministrazione (articoli 334-356), comprendente situazioni molto diverse, quali, ad esempio, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, i reati di oltraggio e di interruzione di pubblico servizio.

  29. Prima di entrare nel merito dei reati contro la pubblica amministrazione, è necessario cercare di capire quando un soggetto possa essere definito pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio. La versione originaria del codice conteneva due definizioni sostanzialmente tautologiche; infatti, si riteneva pubblico ufficiale il soggetto che svolgeva una pubblica funzione. Si sosteneva, cioè, che al concetto di pubblico ufficiale corrispondesse una pubblica funzione, peraltro non definita in quanto il codice rinviava espressamente all’elaborazione dottrinale nell’ambito del diritto amministrativo. Nella norma erano poi indicate alcune connotazioni di contorno, ma che non spostavano i termini della questione. Questa definizione, come è intuibile, era stata fonte di molte incertezze, soprattutto per il motivo che l’assetto della pubblica amministrazione è andato trasformandosi negli anni assumendo caratteristiche assai differenti rispetto agli anni venti e trenta. Non deve, infatti, essere dimenticato che nel corso degli anni si è verificato un ampliamento notevolissimo dell’ambito di operato della pubblica amministrazione, che è andato ben oltre le previsioni del legislatore del codice Rocco. Gli stessi problemi, forse maggiori, nascevano dalla definizione di incaricato di pubblico servizio che molto tautologicamente sanciva che fosse incaricato di pubblico servizio chi svolgeva un pubblico servizio. Il legislatore del 1990, con la legge 86, nel quadro di una modifica non complessiva, ma sicuramente articolata, dei reati contro la pubblica amministrazione, ha cercato di affrontare la questione cercando di offrire qualche indicazione in più rispetto al passato.

  30. ARTICOLO 357 CODICE PENALE – Nozione di pubblico ufficiale [1] Agli effetti della legge penale sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. [2] Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. Il nuovo articolo 357 definisce pubblici ufficiali i soggetti che esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. - Ricoprono una pubblica funzione legislativa i membri del Parlamento ed i membri dei Consigli Regionali. - Ricoprono una pubblica funzione giudiziaria, concetto forse meno intuitivo di quello precedente, ma ricollegabile all’esercizio di uno dei classici poteri individuati dalla tripartizione risalente a Montesquieu, coloro che operano nel settore della giurisdizione, compresi i soggetti che non svolgono propriamente una funzione giurisdizionale, ma una semplice funzione di supporto alla stessa. • Area magmatica e di difficile individuazione risulta quella residuale, che, in maniera puramente riassuntiva, viene definita pubblica funzione amministrativa. Il legislatore del 1990 ha cercato di cimentarsi proprio su questo terreno, dettando qualche direttiva di identificazione. Ai sensi del secondo comma dell’articolo 357, si considera pubblica funzione amministrativa quella disciplinata da norme di diritto pubblico o da atti autoritativi o certificativi. La norma enuncia, inoltre, una serie di parametri che, però, nella realtà dei fatti, servono soltanto per identificare le aree delle qualifiche pubblicisticamente rilevanti. Infatti, i concetti di formazione e manifestazione della volontà della pubblica amministrazione oppure il suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi servono per identificare la pubblica funzione, ma in relazione all’area degli altri soggetti che ricoprono una qualifica pubblicistica, cioè gli incaricati di pubblico servizio. Nell’articolo 358, superando la precedente tautologia, si è cercato di aggiungere qualche connotato al concetto di pubblico servizio (materia scivolosa anche nell’ambito dello stesso diritto amministrativo).

  31. ARTICOLO 358 CODICE PENALE – Nozione della persona incaricata di un pubblico servizio: [1] Agli effetti della legge penale, sono incaricati di pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. [2] Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale. Per pubblico servizio, ai sensi del secondo comma dell’articolo 358, si intende un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione (quindi, di nuovo, con norme di diritto pubblico ed atti autoritativi). Alla persona incaricata di pubblico servizio non sono attribuiti i poteri tipici della pubblica funzione. Inoltre, situazioni che, di per sé, rientrerebbero nella definizione di pubblico servizio, vengono escluse per evitare un’eccessiva dilatazione delle qualifiche soggettive (e quindi dell’applicazione dello Statuto Penale della Pubblica Amministrazione). Non sono considerate persone incaricate di pubblico servizio coloro che svolgono semplici mansioni di ordine o prestano opera meramente materiale. Dall’analisi delle due disposizioni, così come sono state riformulate da legislatore nel 1990, si evince che, in definitiva, la prima operazione da effettuare (di fatto piuttosto difficoltosa) consiste nell’identificare l’attività pubblicisticamente qualificata, all’interno della quale occorrerà poi distinguere la pubblica funzione dal pubblico servizio in senso stretto, contrapponendolo alle attività di natura privata (non soggette allo Statuto Penale della Pubblica Amministrazione). Proprio in quest’ambito si gioca la partita più importante in quanto una volta che è stato chiarito che un certo settore rientri tra le attività pubblicisticamente rilevanti sarà sufficiente individuare l’esercizio di determinati poteri, segnalati nella seconda parte della definizione della funzione amministrativa, per distinguere tra pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio. In pratica, risulta pubblico ufficiale il soggetto che ricopre poteri autoritativi ed autocertificativi che lo distinguono dal semplice incaricato di pubblico servizio, cui questi poteri non sono attribuiti.

  32. DISTINZIONE TRA SOGGETTI QUALIFICATI E SOGGETTI NON QUALIFICATI Il problema maggiore, come si avrà modo di evincere in seguito, consiste nel delimitare il rapporto esterno, in quanto la distinzione interna fra pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio, in virtù dei criteri dati dal legislatore (articoli 357/358), non presenta grossi difficoltà. E’ evidente che nel campo delle attività pubblicisticamente rilevanti sono impiegati soggetti in grado di manifestare la volontà del servizio pubblico, in quanto dispongono di poteri di accertamento degli illeciti ed hanno, in qualche caso, poteri coercitivi o poteri certificatvi di attestazione. All’interno dei settori pubblicisticamente rilevanti, chi è dotato di simili poteri assume la qualifica di pubblico ufficiale, mentre chi è ne privo, rimane, eventualmente (ma non necessariamente), un incaricato di pubblico servizio. In merito alla qualifica di incaricato di pubblico servizio, deve essere rimarcato che l’articolo 358 presenta una definizione in negativo in quanto, dopo aver precisato che la nozione di incaricato di pubblico servizio risulta residuale, viene posto uno sbarramento verso il basso. Quindi chi svolge semplici mansioni d’ordine o attività puramente materiali, pur rientrando nell’ambito di un’attività pubblicisticamente rilevante che costituisce un pubblico servizio, non viene considerato un incaricato di pubblico servizio in quanto il legislatore ha ritenuto opportuno limitare ad un certo livello l’attribuzione di qualifiche ai soggetti. Si tratta di soggetti che svolgono la loro attività inquadrati nell’ambito di un pubblico servizio, ma non risultano incaricati di pubblico servizio perché il loro compito è puramente esecutivo o comunque si esaurisce nel compimento di attività meramente materiali.

  33. Attenzione, non si tratta di un’esclusione da poco, in quanto, ad esempio, nel settore sanità, il barelliere, che svolge un’attività meramente materiale, non dispone della qualifica di incaricato di pubblico servizio. Lo stesso discorso è valido per la dattilografa del palazzo di giustizia o dell’università, che ricopre una mansione puramente d’ordine. In merito alla distinzione tra soggetti qualificati e soggetti non qualificati, di recente sono stati espressi alcuni dubbi inerenti determinate professioni. E’ stato, per esempio, posto il problema se l’autista di un mezzo, inquadrato nell’ambito del servizio pubblico, risulti un incaricato di pubblico servizio. La risposta è stata in generale negativa, ma con qualche eccezione. In particolare, in riferimento all’autista di un mezzo pubblico, è stata negata la qualifica pubblicistica in virtù del fatto che sia tenuto ad eseguire un’attività prevalentemente programmata da altri e non abbia alcun margine di autonomia e di scelta. Qualche discussione in più si è avuta riguardo gli autisti di mezzi di soccorso (autoambulanze) cui, in alcuni casi è stata attribuita la qualifica di incaricati di pubblico servizio. In un caso passato sotto il vaglio della Cassazione, era stato richiesto dalla polizia l’intervento di un’autoambulanza il cui autista si era, però, rifiutato di caricare sul mezzo la persona che secondo gli agenti della polizia di Stato, doveva essere trasportata in ospedale.

  34. Il fatto configurava senza problemi un’omissione di soccorso, ma la questione si è incattivita a tal punto che gli agenti avevano denunciato l’autista per omissione di atti d’ufficio, ai sensi dell’articolo 328, comma 1. La Cassazione ha confermato la tesi, proposta dai giudici dei gradi precedenti, secondo cui l’autista fosse investito di una qualifica pubblicistica, anche se, nel caso specifico, poteva sorgere il dubbio che non si trattasse di un semplice autista di un’autoambulanza, ma di un soggetto maggiormente qualificato. Infatti, in genere, con il mezzo di soccorso si muovono due o tre persone, di cui almeno una ricopre un ruolo di coordinamento e di direzione. In questo caso, sarebbe stato forse più corretto appurare se l’autista ricoprisse il ruolo di capo equipaggio dell’autoambulanza in grado, per esempio, nel momento in cui si ricevono più chiamate via radio di decidere sulle priorità di intervento. In questo caso l’attribuzione di compiti non meramente esecutivi può essere idonea a ritenere l’autista un incaricato di pubblico servizio, qualifica che non spetta, invece, al soggetto posto ai suoi ordini, il quale deve eseguire le direttive senza discutere. Per come è stata valutata dalla Cassazione, la questione è rimasta un po’ ambigua in quanto se il soggetto si fosse realmente rivelato un semplice autista non si sarebbe potuto vedere di quali margini di autonomia avrebbe potuto disporre. Il semplice autista di un’autoambulanza è tenuto a rispettare un cliché ben prestabilito (in base al quale è obbligatorio prima soccorrere il soggetto leso e poi trasportarlo, attraverso la via più breve, in l’ospedale), ma non dispone, in genere, della possibilità di redigere una scala di priorità di intervento. Si tratta insomma di una situazione in cui occorre valutare, con meno superficialità di quanto fatto dalla Cassazione in qualche pronuncia, i compiti che la disciplina del settore attribuisce ad un determinato soggetto.

  35. In particolare è opportuno distinguere se i compiti risultino meramente esecutivi o implichino un ambito, seppure molto ristretto, di scelta. Tra l’altro, occorre, rimarcare che le categorie previste dal comma 2 dell’articolo 358 si rivelano di vecchio tipo, perché facendo riferimento alla nozione di mansione d’ordine, la norma si riallaccia all’inquadramento del pubblico impiego prima dell’istituzione delle qualifiche funzionali. Comunque, sia dottrina che giurisprudenza sostengono che per includere un soggetto nel novero degli incaricati di pubblico servizio sia necessaria la possibilità di svolgere un’attività almeno autonoma (se non discrezionale). Non è, per esempio, ritenuto qualificato un soggetto che svolge funzioni di autista dipendente di un ufficiale giudiziario quando queste funzioni restano circoscritte ad un’attività meramente materiale in quanto non rientra nell’esercizio dei poteri certificativi neppure l’obbligo di annotare i chilometri percorsi ed i relativi consumi di carburante (mansioni espletata solamente al fine di ottenere un rilascio di buoni carburante equivalente ai chilometri percorsi)

  36. Recentemente, si è posto un problema di qualifica anche per il conducente di taxi. Il fatto che il servizio taxi possa essere considerato un pubblico servizio è decisamente plausibile, anche se il servizio non si svolge in regime di concessione. L’attività è peraltro scrupolosamente disciplinata da determinate norme poste dagli enti locali (rispetto di certe informazioni, prenotazioni, orari, ecc…). Quindi si potrebbe ritenere che siano presenti elementi sufficienti per ritenere il servizio taxi un servizio pubblico a tutti gli effetti e non un semplice servizio al pubblico. Una pronuncia della Cassazione (riguardante un soggetto che effettuava arrotondamenti sulle tariffe praticate agli utenti) ha, tuttavia, negato che in capo al tassista ricada la qualifica di incaricato di pubblico servizio in quanto l’attività non lascia al soggetto margini di autonoma determinazione. Il taxista è, infatti, obbligato a contrarre con il pubblico ed è obbligato a seguire il percorso più conveniente per raggiungere la meta indicatagli dal cliente (quindi si presenta con una veste analoga a quella dell’autista della linea filoviaria, tranviaria o automobilistica che è tenuto a seguire un percorso più o meno obbligato ed è privo di margini di autodeterminazione).

  37. Tra l’altro, occorre, rimarcare che le categorie previste dal comma 2 dell’articolo 358 si rivelano di vecchio tipo, perché facendo riferimento alla nozione di mansione d’ordine, la norma si riallaccia all’inquadramento del pubblico impiego prima dell’istituzione delle qualifiche funzionali. Comunque, sia dottrina che giurisprudenza sostengono che per includere un soggetto nel novero degli incaricati di pubblico servizio sia necessaria la possibilità di svolgere un’attività almeno autonoma (se non discrezionale). Non è, per esempio, ritenuto qualificato un soggetto che svolge funzioni di autista dipendente di un ufficiale giudiziario quando queste funzioni restano circoscritte ad un’attività meramente materiale in quanto non rientra nell’esercizio dei poteri certificativi neppure l’obbligo di annotare i chilometri percorsi ed i relativi consumi di carburante (mansioni espletata solamente al fine di ottenere un rilascio di buoni carburante equivalente ai chilometri percorsi). Recentemente, si è posto un problema di qualifica anche per il conducente di taxi. Il fatto che il servizio taxi possa essere considerato un pubblico servizio è decisamente plausibile, anche se il servizio non si svolge in regime di concessione. L’attività è peraltro scrupolosamente disciplinata da determinate norme poste dagli enti locali (rispetto di certe informazioni, prenotazioni, orari, ecc…). Quindi si potrebbe ritenere che siano presenti elementi sufficienti per ritenere il servizio taxi un servizio pubblico a tutti gli effetti e non un semplice servizio al pubblico. Una pronuncia della Cassazione3 (riguardante un soggetto che effettuava arrotondamenti sulle tariffe praticate agli utenti) ha, tuttavia, negato che in capo al tassista ricada la qualifica di incaricato di pubblico servizio in quanto l’attività non lascia al soggetto margini di autonoma determinazione. Il taxista è, infatti, obbligato a contrarre con il pubblico ed è obbligato a seguire il percorso più conveniente per raggiungere la meta indicatagli dal cliente (quindi si presenta con una veste analoga a quella dell’autista della linea filoviaria, tranviaria o automobilistica che è tenuto a seguire un percorso più o meno obbligato ed è privo di margini di autodeterminazione).

  38. Quali sono quindi gli elementi per individuare le attività di natura pubblicistica? La risoluzione del problema inerente l’identificazione dell’attività che possa rientrare nella definizione di pubblica amministrazione, venendo di conseguenza regolamentata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, risulta fondamentale perché determina l’applicazione della disciplina penalistica. Infatti, deve essere tenuto ben presente che il ricorso alla disciplina penalistica prevede in alcune situazioni l’applicazione del reato A anziché del reato B (vedi ad esempio la dicotomia peculato – appropriazione indebita) ed in altri casi l’applicazione di una norma penale in vicende che se commesse da un privato risulterebbero penalmente irrilevanti (rifiuto di atti d’ufficio, abuso d’ufficio, ecc…). Determinate attività disciplinate da norme di diritto pubblico, che assumono quindi una valenza pubblicistica (si pensi all’attività di polizia), non pongono alcun problema di Individuazione, ma via via che si esce da quei tre quattro settori classici, monopolizzati dalla mano pubblica, qualunque forma abbia l’intervento dello Stato, si apre la discussione. Si pensi al settore dei trasporti. In origine, aveva chiaramente una matrice privatistica in quanto non era previsto alcun intervento da parte dello Stato, ma in seguito ha acquisito connotati pubblicistici.

  39. Per evitare di incorrere in banali equivoci, occorre distinguere da subito fra pubblico servizio e servizio al pubblico. Il panettiere realizza un servizio al pubblico, però non dispone di una qualifica pubblicistica, in quanto si occupa di un servizio diretto al pubblico attraverso un’attività privata. Il salumiere, ad esempio svolge senza ombra di dubbio un’attività privata, pur essendo rivolta al pubblico. Il commercio, in genere, si rivolge al pubblico, ma non risulta un pubblico servizio, anche se nel suo ambito si incontrano situazioni non sempre chiare (le farmacie, per esempio, seguono una disciplina che potrebbe consentire di qualificarle come pubblico servizio). In pratica, è presente una serie di settori in cui il problema si pone in maniera più complessa di quanto potrebbe apparire a prima vista. In questi campi non si può mai dare per scontato che vi sia una qualifica pubblicistica in gioco in quanto è necessario analizzare attentamente la disciplina di settore. Gli strumenti indicati dall’intervento legislativo del 1990 non risultano di fatto facilmente maneggevoli in quanto occorre chiedersi cosa si intenda, con precisione, con l’accezione “norme di diritto pubblico” e quale sia il coefficiente che connota una norma affinché questa possa risultare di diritto pubblico. Nei fatti non c’è concordanza nel dare indicazioni in questo settore, motivo per cui l’utilizzo dell’espressione “norme di diritto pubblico” in una disposizione penale pare una scelta assolutamente infelice.

  40. Premesso che le norme in questione non devono essere confuse con le norme di ordine pubblico, si potrebbe ritenere che si tratti di norme con cui una determinata attività viene finalizzata al perseguimento di interessi pubblici ed in cui la pubblica autorità interviene in maniera più vincolante e più presente che in altri settori, con l’avvertenza, però, che difficilmente si incontreranno attività in cui i poteri pubblici non intervengano in qualche misura. Si è fatto in precedenza l’esempio del settore del commercio al minuto che è sicuramente privato. Eppure anche in questo campo esiste una disciplina che, in qualche misura, può essere definita di diritto pubblico in quanto per esercitare la professione occorre essere muniti di determinate autorizzazioni ed occorre seguire determinate regole. Peraltro è intuitivo che il fatto che viga una regolamentazione pubblicistica per l’accesso a determinate attività non significa che tali attività siano “ingabbiate” da norme di diritto pubblico, perché le norme di diritto pubblico, per esempio, non entrano nel merito del prezzo praticato sui prodotti, anche se è vero che esiste qualche piccola normativa di settore inerente, ad esempio, saldi o orari di chiusura. In linea generale, queste attività si svolgono secondo regole di diritto privato.

  41. PAR. II.II. I SINGOLI REATI CONTRO LA P.A. Con tale accezione vengono identificate situazioni che possono essere realizzate soltanto da chi occupa una determinata posizione all’interno dell’ordinamento, rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, una qualifica quindi penalisticamente rilevante. Questo gruppo di fattispecie costituisce quello che con formula riassuntiva viene indicato come lo “Statuto penale della pubblica amministrazione”, cioè quella disciplina che riguarda la pubblica amministrazione in senso lato. Lo Statuto Penale della pubblica amministrazione prevede fattispecie reato che se commesse da soggetti non inquadrati nella pubblica amministrazione non costituirebbero illecito penale (ad esempio, l’omissione di atti d’ufficio individua comportamenti che fuori dal settore pubblico non hanno alcuna rilevanza penale), oppure darebbero vita ad una diversa imputazione (ad esempio certe forme di peculato se non fossero previste come tali sarebbero punibili ai sensi dell’appropriazione indebita).

  42. _ARTICOLO 314 CODICE PENALE - Peculato [1] Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria è punito con la reclusione da tre a dieci anni. [2] Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa dopo l’uso momentaneo è stata immediatamente restituita. E’ stata tra le altre cose eliminata la vecchia dicotomia tra peculato (articolo 314) e malversazione a danno di privati (articolo 315, ora abrogato), fattispecie pressoché coincidenti che si distinguevano per il semplice fatto che nel peculato il denaro o la cosa mobile appartenevano alla pubblica amministrazione mentre nella malversazione appartenevano al privato, ancorché in possesso della pubblica amministrazione. Per fare un esempio, quando gli organi competenti sequestravano un bene ad un privato, affidandolo alla segreteria del giudice per la custodia ai fini giurisdizionali, il fatto dell’appropriazione di quel bene, da parte di un soggetto inquadrato nella pubblica amministrazione, dava luogo formalmente ad una malversazione anche si trattava né più né meno di una forma di peculato. Tra le altre cose, le pene previste per le due fattispecie erano perfettamente coincidenti. Il legislatore per risolvere il problema di dicotomia, ha utilizzato, parlando di denaro o di altra cosa mobile, nell’ambito del nuovo articolo 314, l’accezione “altrui”, che sta a significare l’appartenenza alla pubblica amministrazione o ad un privato. Oltre ad avere riscritto la figura di peculato in senso stretto, il legislatore ha introdotto nel secondo comma, l’ipotesi del peculato d’uso, che, è stata distinta sotto il profilo sanzionatorio, dalla fattispecie dal peculato in senso stretto. Con questo intervento, quanto mai opportuno, è stato definitivamente risolto il dubbio sulla configurabilità di un peculato mediante momentaneo utilizzo illecito di una cosa, differenziando la risposta sanzionatoria rispetto alla vera e propria appropriazione. Il secondo comma del vecchio articolo 314, inerente l’interdizione dai pubblici uffici, pena accessorie che consegue alla condanna, è confluito, senza alcun cambiamento rilevante, in una norma autonoma che riguarda anche il reato di concussione. Trattasi dell’art. 317 bis c.p. in base al quale la condanna per i reati di peculato e concussione comporta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici E se per circostanza attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre ani, la condanna importa l’interdizione temporanea.

  43. A) Peculato in senso stretto Nel quadro generale del reato di peculato, il punto di partenza, che consente di mantenere l’opportuna simmetria rispetto al reato comune di appropriazione indebita, è rappresentato dal fatto che l’autore del reato (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) detiene il possesso o la disponibilità del denaro o dell’altrui cosa mobile per ragioni dell’ufficio. Semplificando la questione, si può affermare che il peculato si rivela una sorta di appropriazione indebita commessa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio ed avente oggetto non una qualsiasi cosa, bensì una cosa di cui abbia il possesso per ragioni d’ufficio o del servizio; questo collegamento è necessario affinché il fatto transiti da una semplice appropriazione indebita ad un peculato. 1. Possesso e disponibilità per ragioni dell’ufficio o servizio – Il possesso o la disponibilità per ragioni dell’ufficio o del servizio rappresenta elemento costitutivo e presupposto fondamentale della fattispecie di peculato. Il nuovo articolo 314 apparentemente amplificando il presupposto previsto dal codice del 1930, che faceva semplicemente riferimento al possesso. Apparentemente, perché, in realtà, anche l’interpretazione giurisprudenziale pregressa portava a dilatare il concetto di possesso per ragioni dell’ufficio o del servizio in maniera abbastanza ampia, consentendo l’applicazione della norma non solo quando era presente un rapporto molto stretto tra il denaro o la cosa mobile ed il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio (nel senso che la cosa era abbinata in via esclusiva alla cura ed alla possibilità di disporre da parte del pubblico ufficiale), ma anche quando era possibile, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, esercitare in qualche misura un’azione illegittima sulla cosa o sul denaro approfittando della posizione occupata all’interno della pubblica amministrazione. In pratica, anche prima della riforma del 1990, si riteneva non indispensabile un rapporto di disponibilità immediata della cosa da parte del pubblico ufficiale, ma si riteneva sufficiente che il pubblico ufficiale, usando i propri poteri o comunque approfittando del suo inquadramento nella pubblica amministrazione, riuscisse a mettere le mani sul denaro o sulla cosa mobile appropriandosene nei termini della condotta descritta dall’articolo 314. Il rapporto, si noti, può essere materiale, ma anche giuridico. Infatti, sembra ridicolo che l’ordinamento consenta, per esempio, l’incriminazione di chi svolge servizio di cassa presso un’Unità sanitaria Locale e si appropria di poche centinaia di euro contenute in cassa non colpendo, invece, il soggetto che, emettendo un provvedimento cartaceo, riesce a spostare miliardi mettendoli a disposizione di un altro soggetto (a lui legato) in maniera illegittima. E’ evidente che il possesso non si realizzi soltanto quando il denaro o la cosa mobile sono posti nella diretta disponibilità del pubblico ufficiale, ma anche quando il pubblico ufficiale riesca ad influirne sulla destinazione. In questo caso, si realizza una forma di peculato in cui, almeno in partenza, non è presente un rapporto immediato con la cosa, anche se risulta chiaro, come si ricava dal codice, che il pubblico ufficiale gode della possibilità di utilizzarla.

  44. Di conseguenza, si evince che il rapporto non deve essere valutato dal solo punto di vista naturalistico, anche se, a volte, la giurisprudenza ha dimostrato la tendenza a colpire con la norma sul peculato non il pubblico ufficiale che sposta somme significative, ma piuttosto il pesce piccolo, il vigile urbano o il carabiniere che, per intascare cifre irrisorie, si fa pagare “brevimanu” una contravvenzione. Mantenendo la visione comparativa con la norma sull’appropriazione indebita (articolo 646), si può ricordare che presupposto del reato di appropriazione indebita è il possesso di denaro (o di cosa mobile) da parte di un privato cui la pecunia è stata affidata a qualsiasi titolo da parte di un altro soggetto. Nella fattispecie di peculato il presupposto risulta differente, in quanto la norma fa riferimento ad un rapporto del soggetto qualificato con il denaro (o altra cosa mobile), che prevede il possesso o la detenzione non a qualsiasi titolo, bensì per ragioni dell’ufficio o del servizio. Attenzione, l’accezione “ragioni dell’ufficio o del servizio” non significa necessariamente che debba essere presente una stretta competenza funzionale da parte del soggetto in quanto si ammette che la disponibilità possa anche derivare da prassi illegittime, da situazioni normativamente non regolamentate o da situazioni di disponibilità di fatto (ipotesi in cui dovrebbero essere soggetti diversi a disporre di quel denaro o di quella cosa). Per la realizzazione del presupposto previsto dall’articolo 314, è sufficiente che sia presente un rapporto che consenta di dirottare l’utilizzazione della cosa dalla destinazione a pubblica utilità al patrimonio privato del soggetto che agisce (o di terzi a lui legati).

  45. L’ampia interpretazione giurisprudenziale del concetto di possesso, è sfumato nella disponibilità e nel collegamento alla ragione dell’ufficio o del servizio, e consente, nella pratica, una larga copertura casistica escludendo solamente rapporti di mera occasionalità di tipo materiale. Ad esempio, il fatto che un soggetto, che ha un ufficio in un palazzo in cui operano diverse amministrazioni, riesca a farsi consegnare dal portinaio un mazzo di chiavi, riferendogli di dover entrare nell’ufficio di competenza, mentre poi, in realtà, penetra nell’ufficio di una diversa amministrazione appropriandosi di una somma di denaro, non può essere inquadrato nel peculato in quanto il collegamento con l’attività svolta è puramente occasionale. Secondo un orientamento giurisprudenziale nnon commette peculato il soggetto che si appropria di cose di modesto o insignificante valore. La ratio di questa posizione può essere ricercata, come sottolineato dalla Cassazione, nelle finalità della sanzione penale in base alle quali è volontà dell’ordinamento applicare la sanzione solo “in quei casi in cui l’afflizione legislativamente stabilita sia proporzionale al fatto commesso ed il soggetto appaia bisognoso dell’emenda connessa a quell’afflizione”. A tal proposito, merita di essere segnalata una lettura della Cassazione secondo la quale il soggetto qualificato, che nell’esercizio delle sue mansioni produca atti falsi utilizzando materiale di proprietà della pubblica amministrazione non risponde di peculato a causa dell’estrema esiguità di valore della cosa ed inoltre per assenza dell’elemento appropriativo. Secondo la Cassazione il soggetto deve rispondere solamente di falsità in atto pubblico. A conferma di questa lettura c’è anche un’altra pronuncia che sancisce che non commette peculato il soggetto che utilizzi beni appartenenti alla pubblica amministrazione privi di rilevanza economica. In ogni caso, al di là del valore delle cose oggetto di appropriazione, il possesso o la disponibilità della cosa risultano il primo elemento costitutivo del reato di peculato.

  46. 2. Condotta appropriativa L’individuazione della condotta appropriativa risulti meno semplice di quanto, si possa pensare. Il primo problema che si pone concerne la possibilità di far rientrare all’interno di tale concetto, quelle condotte caratterizzate dalla “distrazione delle somme di denaro o della cosa mobile a favore proprio od altrui”. A tal proposito occorre ricordare che prima della riforma del 1990, l’art. 314 puniva espressamente Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico ufficiale che avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso di denaro o di altra cosa mobile appartenente alla pubblica amministrazione, se l’appropria, ovvero la distrae a profitto personale o di altri…. Eliminata la distrazione, ci si è legittimamente domandati se davvero quei comportamenti, che in precedenza venivano qualificati come ipotesi di peculato per distrazione, potessero rimanere al di fuori delle condotte tipiche di peculato. La stessa giurisprudenza ha assunto in questi anni posizioni un po’ oscillanti. Se, infatti, non c’è dubbio che si sia di fronte a casi classici di appropriazione nelle ipotesi più banali (soggetto che ha dei soldi nel cassetto e li intasca), l’inquadramento diventa più problematico quando ci si imbatte in un comportamento con cui si ottiene una disponibilità anomala di una risorsa finanziaria o di una res appartenente alla pubblica amministrazione per finalità che si percepiscono come illecite. Proprio in questi casi è importante accertare se si possa realmente parlare in termini di appropriazione.

  47. La Cassazione, in un intervento del 1992, ha provato a chiarire i rapporti tra appropriazione e distrazione. In base ad una prima lettura della vicenda si poteva sostenere di trovarsi di fronte ad un caso classico di peculato per distrazione. Il pubblico ufficiale aveva, infatti, distolto i fondi, destinati ad attività della pubblica amministrazione, per favorirne l’appropriazione da parte di un complice, sotto la copertura della partecipazione ad attività, in realtà estranee all’amministrazione. Nell’ipotesi era evidente lo spostamento delle somme dall’obiettivo A (perseguimento di un interesse pubblico) all’obiettivo B (privilegio di un interesse privato). Dalla lettura della vicenda effettuata dalla Cassazione, si evince come il soggetto si sia comportato con i soldi dell’amministrazione comunale come se fossero di sua proprietà (“uti propri”), come se li avesse dati come mancia ad una persona dietro la copertura della partecipazione ad attività in realtà estranee all’amministrazione. Secondo la Cassazione, in questo caso non si verifica semplicemente distrazione, ma si tratta di una condotta appropriativa rientrante nel peculato per appropriazione in quanto ci si comporta con la cosa “uti dominus”. In realtà, questa interpretazione non si è rivelata un dato pacifico in quanto nel 1999 la Sezione V della Cassazione ha sostenuto una tesi diversa, in un episodio nuovamente suscettibile di due letture differenti. In questo caso, soggetti appartenenti alla Polizia di Stato si occupavano di un autoparco della Polizia stessa ed avevano rapporti con officine esterne che intervenivano per effettuare lavori di manutenzione sugli automezzi della Polizia. In questo quadro, si erano verificate finte riparazioni e “riparazioni gonfiate” (cioè forniture in parte non corrispondenti a quanto veniva dichiarato nella documentazione). In pratica, l’amministrazione pagava somme maggiori rispetto alla prestazione effettivamente ricevuta (con tutta evidenza, avveniva una spartizione ex post, fatto comunque irrilevante in quanto conta solamente che una parte delle risorse destinate alla manutenzione dei veicoli della Polizia finisse, come minimo, nelle tasche dei titolari di queste officine private). Questi fatti si sarebbero potuti leggere nell’ottica della sentenza della Sezione VI di poco anteriore ritenendoli episodi in cui i pubblici ufficiali, amministrando il denaro della pubblica amministrazione, avevano effettuato elargizioni come se si trattasse di denaro loro (cioè disponendone uti domini). In questo senso si sarebbe potuto perciò ravvisare una condotta appropriativa. Il tribunale di Milano, in effetti, aveva inquadrato in prima battuta, il fatto come peculato, mentre la Corte d’Appello, due anni dopo, aveva spostato il fatto fuori dal peculato, affermando che non si trattasse di un fatto di appropriazione, ma sostanzialmente, come si ricava dalla motivazione, di un caso di distrazione, non più prevista all’interno della norma sul peculato.

  48. La Cassazione ha confermato l’impostazione dei giudici d’Appello, negando che si fosse verificata nell’episodio una vera appropriazione ed affermando testualmente: “è pertanto configurabile solo la distrazione quando si tratti di pagamenti indebiti in favore di terzi, operati pur sempre in nome e per conto della pubblica amministrazione”. D’altra parte, pare un po’ difficile pensare che un pubblico ufficiale riesca a realizzare un’appropriazione in nome proprio in quanto verrebbe meno anche la giustificazione formale dell’erogazione.

  49. Nel Novembre 2002 la Cassazione ha confermato la lettura del 1992, pronunciandosi su un caso di erogazione indebita di pubblico denaro a terzi privati, tipica condotta distrattiva, provando a mettere chiarezza negli intricati rapporti tra condotte di distrazione riconducibili al peculato, in quanto vere e proprie appropriazioni, e condotte distrattive riconducibili all’abuso d’ufficio. Nel caso discusso due soggetti, dotati di firma congiunta sul conto bancario di un ente pubblico avevano indebitamente effettuato vere e proprie erogazioni di denaro in favore di altri soggetti non riconducibili ad adeguate controprestazioni rese in favore dell’Ente ed in mancanza di qualsiasi rispondenza a necessità dell’Ente. La Cassazione ha sottolineato che l’appropriazione da parte del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio) del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia il possesso o la disponibilità per ragioni del suo ufficio rappresenta l’elemento centrale della fattispecie astratta del peculato, rimarcando il fatto che quando del denaro o della cosa mobile altrui sia beneficiato un terzo semplice privato non è quest’ultimo ad appropriarsi della cosa, ma è pur sempre il pubblico ufficiale che ne ha il possesso o la disponibilità, sia pure allo scopo di farne beneficiare il terzo. Secondo la Cassazione, è del tutto indifferente il fatto che il pubblico ufficiale si appropri della risorsa altrui (denaro o altra cosa mobile) a suo vantaggio oppure a vantaggio di altri in quanto in entrambi i casi si verifica una condotta appropriativa che lede il medesimo bene giuridico protetto

  50. B) Peculato d’uso L’introduzione della norma sul peculato d’uso si è rivelata estremamente opportuna in quanto ha risolto un problema delicato. Sotto il vigore della vecchia normativa, ci si era domandati più volte se un uso improprio, quindi non il comportamento che determina o l’appropriazione o il dirottamento definitivo della cosa mobile, ma semplicemente l’uso improprio di una cosa appartenente alla pubblica amministrazione, che rimaneva nell’ambito del patrimonio della pubblica amministrazione, ma veniva utilizzata in maniera illegittima, potesse essere apprezzabile alla stregua della norma sul peculato. In particolare, si discuteva se questo comportamento potesse rappresentare una forma di peculato per distrazione. A tal proposito, alcuni davano risposta negativa, ritenendo che la distrazione punibile dovesse essere affine all’appropriazione, dovendo, in altre parole, portare ad un definitivo allontanamento della cosa dal patrimonio della pubblica amministrazione. Altri, invece, ritenevano che si potesse parlare di peculato in quanto la norma non prevedeva esplicitamente che la distrazione dovesse essere a titolo definitivo. Per questa seconda corrente di pensiero, l’uso indebito dell’auto blu della pubblica amministrazione, ad esempio per andare in gita nel week-end, rappresentava un distoglimento della cosa, sia pure limitato nel tempo, sia pure non così devastante come l’alienazione della res o il suo introitamento nel patrimonio del privato. La discussione era resa complicata dal fatto che si poneva l’alternativa di rispondere di peculato (3 anni di minimo) o rimanere impuniti. Il legislatore del 1990 ha definitivamente risolto la questione, inerente la configurabilità del peculato d’uso, istituendo un apposita cornice sanzionatoria. La fattispecie di peculato costituisce un reato autonomo ove il fine perseguito dall’agente di fare un uso momentaneo impedisce di inquadrare il fatto nel peculato ordinario, che prevede, invece, un’appropriazione definitiva o continuata. Quindi, la classica utilizzazione indebita dell’autoveicolo appartenente alla pubblica amministrazione viene oggi pacificamente ricondotta al peculato d’uso.

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