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LE TEORIE ECONOMICHE. prof. Nino Rebaudo. IL MERCANTILISMO.
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LE TEORIE ECONOMICHE prof. Nino Rebaudo
IL MERCANTILISMO • — Econ. pol. Dottrina economica elaborata fra il XVI e il XVII sec. contemporaneamente al sorgere e all'affermarsi delle monarchie nazionali assolute tendenti a perseguire una politica di potenza, e in seguito all'afflusso in Europa di enormi quantità di oro e di argento dalle miniere americane. (Considerando che la ricchezza, e quindi la potenza, di un paese consista nel possedere metalli preziosi, il mercantilismo indicava le misure atte a raggiungere tale scopo.) • u Storia • Il mercantilismo ha proposto politiche economiche differenti secondo le condizioni e le necessità dei diversi paesi. In Spagna e in Portogallo in cui affluivano direttamente metalli preziosi dalle Americhe, gli economisti proposero di vietare da una parte l'uscita di oro e di argento e dall'altra l'importazione di merci straniere. Questa forma di mercantilismo, chiamata “bullionismo”, riuscì solo a deprimere l'economia di questi due paesi i quali, trascurando di sviluppare la loro potenzialità produttiva, non riuscirono a evitare la fuga di metalli preziosi all'estero. In Francia l'attenzione fu posta sulla necessità di un saldo attivo della bilancia commerciale aumentando le esportazioni così da favorire l'afflusso di oro. Il colbertismo attuò in modo particolare questa politica mediante misure di intervento per sviluppare l'industria e mediante un sistema di protezione doganale. • In Inghilterra fonte di ricchezza fu considerato non solo il commercio ma anche la navigazione. Nel XVI sec., quindi, venne posto in vigore il principio della “bilancia dei contratti” per cui i contratti fra cittadini e stranieri non dovevano implicare uscita di oro o di argento dal paese. Nel XVII sec., con l'Atto di navigazione di Cromwell (1651), in cui si decretava che si potevano importare merci in Inghilterra solo con navi inglesi, si assicurò la supremazia della marina mercantile inglese su quella olandese. • Sebbene col nome mercantilismo si designi, più che una dottrina coerente e organica, un insieme di regole pratiche di politica economica, è incontestabile che l'economia politica come scienza autonoma ebbe il suo impulso nell'età dell'assolutismo, quando le decisioni prese dai vari Stati per difendere la propria ricchezza diedero chiara coscienza della funzione specifica e del carattere normativo della scienza economica. Una conferma di questo si ha osservando che in Germania il mercantilismo, definito come una “scienza camerale”, diede luogo all'istituzione di cattedre e altrettanto avvenne in Francia, dove, dopo l'apparizione del trattato di Montchrestien, Richelieu ordinò che, nel collegio che avrebbe portato il suo nome, l'economia politica fosse insegnata nelle classi superiori. (In Italia la prima cattedra di economia politica fu istituita a Napoli da Bartolomeo Intieri per Antonio Genovesi.) I maggiori esponenti del mercantilismo furono in Francia Bodin e Montchrestien, in Inghilterra Mun e Child; in Italia, oltre al già ricordato Genovesi, Serra e Botero.
LA FISIOCRAZIA • fisiocrazìa [ò] s.f. Corrente di pensiero economico sorta e sviluppatasi in Francia nel XVIII sec. per opera di Quesnay e dei suoi discepoli, fra cui i più importanti furono Dupont de Nemours, che introdusse il termine fisiocrazia, Mirabeau padre, Mercier de La Rivière e, in parte, Turgot. • u Economia • Presupposto filosofico della dottrina fisiocratica è la fiducia nell'ordine naturale: l'economia è governata da leggi naturali, stabilite da un Dio benefico; solo seguendo tali leggi l'uomo potrà raggiungere il massimo benessere. Compito dell'economista è di interpretare le leggi naturali che il principe deve poi tradurre in norme positive. La ricerca dell'ordine naturale portò i fisiocratici ad analizzare i fenomeni della produzione e della circolazione dei beni. Per essi la produzione consisteva unicamente nella creazione di nuova ricchezza materiale. L'eccedenza di prodotto su quanto è stato consumato per produrlo costituisce il prodotto netto. L'unica attività in grado di fornire il prodotto netto è l'agricoltura, poiché le altre attività non fanno che trasformare beni preesistenti, come l'industria, o trasferirli, come il commercio. La società viene quindi divisa in tre classi: quella produttiva (degli agricoltori), quella dei proprietari terrieri e quella sterile (degli addetti all'industria e al commercio). Il prodotto netto circola poi tra le tre classi e si distribuisce fra coloro che hanno collaborato alla produzione. Una parte, inoltre, passa al principe sotto forma di imposta unica sulla terra, che costituisce la sola fonte di nuova ricchezza. Nel campo della politica economica i fisiocratici sostenevano che condizione essenziale di prosperità fosse la piena libertà di agire degli uomini. In reazione quindi all'interventismo dei mercantilisti, affermarono il principio del “laissez faire, laissez passer”.
ADAM SMITH • Smith (Adam), economista scozzese (Kirkcaldy, Fifeshire, 1723 - Edimburgo 1790). È considerato, con Ricardo, il massimo esponente della scuola classica. Professore prima di logica e poi di filosofia morale a Glasgow, nel 1759 diede alle stampe la sua prima opera, Teoria del sentimento morale, in cui espose la sua filosofia sull'attività economica e la ricchezza. Nel 1764 lasciò l'insegnamento per recarsi in Francia, dove ebbe occasione di venire a contatto con i più eminenti filosofi ed economisti del tempo. Tornato dopo due anni nella città natale si dedicò interamente agli studi, pubblicando nel 1776 la sua opera fondamentale: Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (più comunemente Ricchezza delle nazioni). Sostenitore del principio della “libertà naturale” (intesa sia come rimozione di tutti i vincoli, salvo quelli imposti dalla giustizia, sia come proposizione secondo cui il libero gioco delle azioni individuali porta a un ordine logicamente determinato), cercò di dimostrare che in regime di concorrenza ogni individuo che persegua il proprio interesse personale serve necessariamente anche l'interesse della collettività.
“LA RICCHEZZA DELLE NAZIONI” • La Ricchezza delle nazioni, cui gli economisti del XIX sec. si ispirarono largamente, si compone di cinque parti, la prima delle quali tratta dell'efficacia produttiva del lavoro, delle leggi dello scambio e di quelle della distribuzione. Smith riteneva il lavoro l'unica fonte della ricchezza e la divisione del lavoro unico fattore di progresso economico, essendo da sola in grado di spiegare la maggior ricchezza di cui può disporre anche il membro più umile della società civile nei confronti di quanto può conseguire il selvaggio più attivo. La divisione del lavoro è la necessaria conseguenza dell'innata tendenza della natura umana allo scambio e la sua ampiezza è limitata dall'ampiezza del mercato. L'importanza data al lavoro portò Smith, almeno in un primo tempo, a considerare il lavoro stesso la misura reale del valore di scambio (distinto dal valore d'uso) di tutte le merci, la sola norma che permetta di paragonare i valori di diverse merci in ogni tempo e in ogni luogo. Tuttavia, in un passo successivo dell'opera, egli precisò tale teoria del “valore-lavoro” limitandola a quello stadio primitivo della società che precede sia l'accumulazione del capitale sia l'espropriazione della terra e in cui l'intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Quando il capitale si è accumulato nelle mani di singole persone e tutta la terra è divenuta proprietà privata, salario, profitto e rendita divengono le fonti originarie non solo di ogni reddito, ma anche di ogni valore di scambio (teoria del valore basata sul costo di produzione). Nelle società civili pertanto il prodotto del lavoro scambiato sul mercato non appartiene interamente al lavoratore: una parte di esso deve andare all'imprenditore che ha anticipato l'intero capitale dei materiali e dei salari e una parte al proprietario fondiario. Sulla base della teoria del valore Smith sviluppò quindi quelle del prezzo d'equilibrio e della distribuzione. Per l'economista scozzese il “prezzo di mercato”, cioè quello effettivo a cui la merce viene venduta essendo determinato dall'offerta e dalla domanda, tende a oscillare intorno al “prezzo naturale” (considerato il prezzo esattamente sufficiente a coprire l'intero valore dei salari, del profitto e della rendita), il quale varia in relazione ai saggi naturali del salario, del profitto e della rendita, saggi esaminati da Smith nell'ambito della teoria della distribuzione. Le altre quattro parti della Ricchezza delle nazioni contengono un'analisi della teoria dell'accumulazione e dell'impiego del capitale, una trattazione dello sviluppo economico delle diverse nazioni e dei sistemi teorici di politica economica (con una confutazione del mercantilismo e della fisiocrazia) e, infine, un esame dei princìpi di scienza delle finanze.
DAVID RICARDO • Ricardo (David), economista inglese (Londra 1772 - Gatcomb Park, Gloucestershire, 1823). È, con Adam Smith, il massimo esponente della scuola classica dell'economia. Figlio di un banchiere ebreo, accumulò una considerevole fortuna prima come agente di cambio, poi come banchiere e, nel 1819, venne eletto alla camera dei comuni. Dopo alcuni saggi di teoria monetaria, nel 1817 pubblicò la sua opera fondamentale, Princìpi dell'economia politica e dell'imposta, nella cui prefazione affermava che il problema principale dell'economia politica era determinare le leggi che regolano la distribuzione del prodotto nazionale tra proprietari terrieri, capitalisti e lavoratori. Rifacendosi alla teoria smithiana del valore, Ricardo pose a fondamento del valore di scambio di un bene la quantità di lavoro necessaria per ottenerlo e, in opposizione a Smith, sostenne che tale principio era valido non solo per le società precapitalistiche ma anche per quelle capitalistiche. Inoltre nel lavoro necessario alla produzione di un bene considerò incluso anche il lavoro impiegato per la fabbricazione degli utensili, macchine ed edifici utilizzati nella produzione stessa. Nella teoria della distribuzione dei redditi Ricardo ricercò le leggi che regolano la rendita, il salario e il profitto. Considerò la rendita come determinata dalla differenza fra costi di produzione su terre a fertilità diversa, il salario naturale (distinto da quello corrente determinato dalla domanda e dall'offerta, ma che forze insite nel sistema riconducono a quello naturale) come determinato da quanto è necessario al mantenimento e alla riproduzione del complesso della manodopera esistente senza aumenti e diminuzioni (livello minimo di sussistenza fisiologico, ma legato alle abitudini e ai costumi di ogni popolo) e infine il profitto come determinato da ciò che rimane ai capitalisti una volta pagati i salari e le rendite. L'analisi della distribuzione dei redditi servì a Ricardo per formulare una teoria “pessimistica” dello sviluppo economico capitalistico. Posta come condizione allo sviluppo stesso l'esistenza di un saggio di profitto sufficientemente elevato da permettere un'adeguata accumulazione di capitale e quindi un aumento della produzione, l'economista inglese rilevò che la tendenza del saggio di profitto a diminuire (in quanto la necessità di coltivare terre sempre meno fertili in seguito allo sviluppo demografico avrebbe determinato da una parte un aumento della rendita e dall'altra un aumento del prezzo delle derrate alimentari e quindi dei salari correnti) avrebbe frenato lo sviluppo economico. Di notevole importanza sono anche i contributi di Ricardo alla teoria del commercio internazionale (alla cui base egli pose il principio dei costi comparati) e alla teoria monetaria (a lui si deve una delle prime formulazioni della teoria quantitativa della moneta).
IL MARGINALISMO • marginalismo s.m. (dall'ingl. margin). Teoria economica secondo la quale il valore di un bene è determinato dalla sua utilità marginale. • u Economia • I princìpi del marginalismo, anticipati soprattutto da Dupuit e Gossen (le cui leggi sono rimaste fondamentali) furono enunciati simultaneamente dall'inglese Jevons nell'opera Teoria dell'economia politica (1871), dall'austriaco Menger nei Princìpi fondamentali di economia politica (1871) e dal francese (ma docente a Losanna) Walras negli Elementi di economia politica pura (1874). Tali autori contribuirono, indipendentemente l'uno dall'altro (è stato dimostrato che non ebbero mai contatti fra di loro), a rinnovare il pensiero economico ancorato alla scuola classica, introducendo il principio marginale come strumento di analisi, principio divenuto fondamentale nella teoria economica. Nella cosiddetta “seconda generazione” di marginalisti si possono distinguere tre diverse correnti: la scuola di Losanna o scuola matematica (che utilizzò ampiamente nell'analisi economica i metodi matematici) con Pareto, successore di Walras; la scuola di Vienna o austriaca (detta anche subiettiva o psicologica per avere, in modo particolare, posto l'accento sulla teoria “psicologica” del valore) rappresentata dai discepoli di Menger, von Wieser e von Böhm-Bawerk; la scuola di Cambridge, dominata dal pensiero di Marshall. Il termine marginale, impiegato per la prima volta da von Wieser (mentre Jevons parlava di “grado finale di utilità” e Walras di “scarsità”) è stato introdotto per analizzare l'utilità di successive unità, o dosi, di un bene. Poiché l'utilità è funzione decrescente della quantità disponibile, il valore del bene è determinato dall'importanza che ha per il soggetto l'ultima unità disponibile del bene stesso, cioè dalla sua utilità marginale. L'utilità e, quindi, il valore di un bene viene, così, a essere considerato un fatto “psicologico” o “soggettivo” in quanto dipendente, appunto, dalle valutazioni soggettive dei singoli individui. I marginalisti spostarono in tal modo l'epicentro della teoria economica dall'offerta alla domanda, analizzando soprattutto il problema della soddisfazione dei bisogni e del consumo. Il fenomeno dello scambio, primo problema affrontato da Jevons, Menger e Walras, non venne più considerato sulla base del costo del bene, ma della utilità che i beni hanno per i singoli contraenti (utilità marginale, cioè per ognuno dei contraenti utilità dell'ultima dose acquistata e ceduta). Il valore di scambio è così spiegato in termini di valore d'uso superando la teoria classica del valore-lavoro. Il principio di utilità marginale fu applicato successivamente all'analisi dei fenomeni relativi alla formazione del reddito e del costo, in particolare del salario. Il merito di avere effettuato tale analisi va attribuito a Menger e a von Wieser e al rappresentante della scuola marginalista americana, John Bates Clark. I fattori di produzione, in quanto producono beni atti a soddisfare i bisogni dei consumatori, posseggono valori d'uso e, quindi, di scambio. Il grado di utilità di un fattore è determinato, come per un bene qualsiasi, dalla misura in cui soddisfa i bisogni, cioè dal contributo che dà alla produzione: il suo valore, conseguentemente, sarà determinato dalla sua produttività marginale. L'analisi marginalista, con cui l'economia divenne una scienza astratta, “pura”, permise di giungere alla concezione di una interdipendenza fra tutti i fenomeni economici nonché di postulare e analizzare, come avrebbero fatto Marshall, Walras e Pareto, un sistema di equilibrio fra tali fenomeni.
LA TEORIA KEYNESIANA • keynesiano [ò] agg. Relativo a J. M. Keynes. Teoria keynesiana, teoria che si propone di spiegare le possibili fluttuazioni del livello di reddito e di occupazione in breve periodo attraverso il gioco di variabili dipendenti e di tre variabili “indipendenti”: la propensione al consumo, l'efficienza marginale del capitale e la preferenza alla liquidità che, con la quantità di moneta, determina il tasso di interesse. • u Economia politica • Al pensiero keynesiano sono state mosse critiche ispirate in gran parte da tre motivi. Si sono innanzitutto criticati certi suoi strumenti di analisi teorica come le diverse propensioni che sono alla base della sua teoria. La propensione al consumo, per es., è stata oggetto di numerosi studi che hanno dimostrato come possa variare secondo i paesi, i gruppi sociali e secondo il tempo. La preferenza alla liquidità sembra derivare attualmente sia da un “motivo precauzionale” sia da un “motivo speculativo”, trattato da Keynes in modo troppo esclusivo. Inoltre numerosi autori hanno dimostrato che era eccessivo il ruolo assegnato al tasso di interesse nella determinazione degli investimenti. D'altra parte si è giustamente sottolineata la limitatezza delle ipotesi su cui è basata la dimostrazione keynesiana che, lungi dall'essere una teoria “generale”, illustra, al contrario, un caso molto particolare di arresto di sviluppo nel capitalismo contemporaneo. Infine si è contestata l'efficacia o l'opportunità della politica economica sostenuta da Keynes, o nel tentativo di dimostrare che gli interventi monetari portano necessariamente al dirigismo o al socialismo provocando l'inflazione oppure, al contrario, per auspicare una riforma delle strutture capitalistiche. • Anche se le sue teorie non sempre sono state confermate dai fatti, Keynes ha contribuito decisamente a trasformare il pensiero economico del suo tempo. Egli, infatti, ha esercitato una diretta influenza su tutti quegli economisti che sono classificati come appartenenti alla scuola keynesiana. Pur servendosi dello stesso apparato teorico, questi economisti si dividono in due correnti secondo le loro tendenze politiche: una di ispirazione più liberale e tradizionale (Samuelson, Harrod, Hansen), l'altra più socializzante (Mrs. Robinson, Lerner, Kalecki). Inoltre, gli strumenti e lo schema dell'analisi keynesiana sono stati utilizzati spesso sia per elaborare teorie relative allo sviluppo (Hicks, Harrod), sia per sostenere la tesi della maturità economica (Hansen, Sweezy) avvicinandosi notevolmente alla spiegazione di Keynes della disoccupazione permanente. • In generale tutti gli autori moderni sono stati più o meno influenzati da Keynes tanto che, anche nelle opere di molti suoi avversari, si possono trovare i princìpi essenziali del suo insegnamento. Il pensiero economico moderno deriva da Keynes quando si serve dell'analisi delle quantità globali, in cui pone in rilievo le argomentazioni di carattere monetario, e distingue variabili indipendenti e variabili dipendenti. • Infine la “rivoluzione keynesiana” è stata particolarmente sensibile in politica economica: il raggiungimento della piena occupazione è divenuto uno degli obiettivi principali dei governi. Anche se si possono criticare i suoi obiettivi e gli strumenti che propone, Keynes ha soprattutto il merito di aver aperto la via alla “politica interventista razionale e quantitativa”.