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Comunità per minori

Comunità per minori. Da: Saglietti Marzia, 2012, Organizzare le case famiglia , Carocci, Roma Bastianoni P., Taurino A., Le comunità per minori, 2009, Carocci, Roma. Introduzione Organizzazione delle comunità Rapporto con le famiglie Interazioni nelle comunità

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Comunità per minori

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Presentation Transcript


  1. Comunità per minori Da: Saglietti Marzia, 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma Bastianoni P., Taurino A., Le comunità per minori, 2009, Carocci, Roma

  2. Introduzione • Organizzazione delle comunità • Rapporto con le famiglie • Interazioni nelle comunità • Comunità come Ambiente Terapeutico Globale

  3. introduzione Tipologie di strutture • In base alla normativa attuale si distinguono le seguenti strutture: • comunità educativa • comunità di pronta accoglienza • comunità familiare • comunità alloggio

  4. introduzione Tipologie di strutture • Comunità educative • L’azione educativa è svolta da un gruppo di operatori professionali (sono dei lavoratori); accetta, mediamente sul territorio nazionale, intorno a 10 ospiti. • Comunità di pronta accoglienza • Accolgono minori in situazioni di emergenza, senza un piano preventivo di accoglienza; permanenza breve (30/40 giorni) per il tempo necessario a trovare una sistemazione più idonea; accolgono in genere i MSNA (Minori Stranieri Non Accompagnati): minorenne non di cittadinanza italiana, che si trova sul territorio italiano e che non ha presentato domanda di cittadinanza, senza un adulto che lo assisti o lo rappresenti (genitori o altri) e che siano legalmente responsabili in base alle leggi italiane.

  5. introduzione Tipologie di strutture • Comunità di tipo familiare (o case famiglia) • Strutture nelle quali l’attività educativa è svolta da due o più adulti che vivono con i minori presenti, eventualmente insieme ai propri figli, e che ne assumono la funzione genitoriale; gli adulti sono, in genere, un uomo ed una donna; possono svolgere attività professionale esterna e possono essere aiutati, internamente alla struttura, da professionisti retribuiti. • Comunità alloggio • Strutture che accolgono piccoli gruppi di neomaggiorenni, che sono sostenuti verso un itinerario di autonomia attraverso azioni educative che non hanno statutariamente un carattere di continuità.

  6. introduzione Due caratteristiche comuni • Tempo definito dell’accoglienza; i minori possono permanere nella comunità per un periodo di due anni; • familiarità nella conduzione degli interventi: gestione e routine familiare dei tempi e degli spazi (non deve essere una istituzione totale).

  7. introduzione Familiarità per • Offrire un clima di cura e protezione per la promozione dell’identità personale e culturale del minore; • offrire sostentamento materiale; • migliorare le capacità di comportamento e le competenze sociali; • aiutare i minorenni e i neomaggiorenni ad uscire dalla comunità con migliori capacità e supporti (sociali, economici, ….) per entrare con più sicurezza e possibilità di successo in una nuova fase o nell’età adulta.

  8. introduzione Due fasi nel percorso • Internamente alle comunità per minori si individuano due fasi riferibili al mantenimento del rapporto con il contesto di origine: • fase valutativa nella quale la comunità svolge una azione di supplenza della famiglia di origine e ne valuta i rapporti con il minore, eventualmente proteggendolo; • fase di affiancamento nella quale, qualora sia stato individuato un percorso di ricongiungimento, la comunità opera per far assumere (riassumere) ai genitori il loro ruolo e le loro relative competenze.

  9. introduzione Requisiti per le comunità • È ampio il dibattito su come valutare l’operato delle comunità; a volte si stabiliscono dei criteri però poi non ci sono strumenti per valutarli; ad esempio spesso si ritiene indice essenziale una adeguata formazione degli operatori, però rimane aperto il problema di riuscire a valutarla. • Ci sono comunque dei requisiti minimi, a livello nazionale, che le comunità debbono rispettare (D.M: 21/05/2001, n. 308):

  10. introduzione Requisiti per le comunità • Ubicazione in luoghi abitati facilmente raggiungibili con l’uso di mezzi pubblici, comunque tale da permettere la partecipazione degli utenti alla vita sociale del territorio e facilitare le visite agli ospiti delle strutture; • dotazione di spazi destinati ad attività collettive e di socializzazione distinti dagli spazi destinati alle camere da letto, organizzati in modo da garantire l’autonomia individuale, la fruibilità e la privacy; • presenza di figure professionali sociali e sanitarie qualificate, in relazione alle caratteristiche e ai bisogni dell’utenza ospitata; • presenza di un coordinatore responsabile della struttura;

  11. introduzione Requisiti per le comunità • adozione di un registro degli ospiti; • predisposizione per gli stessi di un progetto educativo individuale; il progetto deve indicare: gli obiettivi da raggiungere, i contenuti e le modalità dell’intervento, il piano delle verifiche; • organizzazione delle attività nel rispetto dei normali ritmi di vita degli ospiti (una comunità non è una istituzione totale); • adozione, da parte del soggetto gestore, di una Carta dei servizi sociali, per indicare alla collettività il servizio che offre.

  12. introduzione Nuove emergenze per le comunità • Ritorno in comunità di soggetti provenienti da adozioni o affidi falliti (stimato intorno al 30% dei soggetti attualmente in comunità); diventano soggetti rifiutati due volte: dalla famiglia di origine e da quella affidataria/adottiva; per loro lavoro educativo particolarmente impegnativo; • presenza di minori stranieri che ha spinto gli educatori a riformularsi sugli aspetti educativi e anche su quelli di accettazione interculturale; • crescente numero di neomaggiorenni fuori famiglia e questo fa interrogare sull’opportunità di esaurire gli interventi con il raggiungimento della maggiore età; • il tasso crescente di accoglienze madre-bambino richiede nuove competenze educative (ad es. la maternità).

  13. organizzazione delle comunità Comunità di pratica • “Le comunità per minorenni sono sistemi sociali organizzati dove le conoscenze, le competenze e le pratiche sono distribuite fra le persone e le cose nel tempo e nello spazio”*. • Tali comunità sono assimilabili alle comunità di pratica(Wenger E. (1998), Communities of practice. Learning, Meaning and Identity, Cambridge University Press, Cambridge.) che sono caratterizzate da: • un’impresa comune: argomento (tema, obiettivo, situazione lavorativa, ……) che accomuna i membri che partecipano e che può evolversi; • un impegno reciproco: che stimola alla condivisione di idee ed alle interazioni; • un repertorio condiviso di azioni, linguaggi, pratiche, strumenti (ideali e materiali). *Saglietti M.,Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012

  14. organizzazione delle comunità Comunità di pratica • Le comunità di pratica si formano, evolvono, muoiono e, per essere tali e non semplicemente dei ‘gruppi’, si organizzano intorno ad un obiettivo comune (impresa comune); si cementano attraverso continue negoziazioni di significato, realizzate dagli stessi membri e facilitate dalla comune volontà di stare insieme, di conoscersi e di vivere l’esperienza in modo significativo (impegno comune). • Sono gruppi sociali che mirano alla collaborazione e alla condivisione e che costruiscono conoscenza in un processo che vede i loro appartenenti accedere a essa e produrne di nuova.

  15. organizzazione delle comunità • In definitiva una comunità per minori ha un obiettivo comune, l’educabilità dei minori, che realizza attraverso un impegno comune degli operatori, utilizzando degli “attrezzi” condivisi (idealità educative, strategie educative, strumenti, …).

  16. organizzazione delle comunità Preoccupazioni[1] • Dire che le comunità per minori sono dei sistemi sociali organizzati non deve destare preoccupazioni; • non si parla di istituzioni nel senso di istituzioni totali; Goffman caratterizza le istituzioni totali nel seguente modo: • “Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono sotto lo stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto con un enorme gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito, […] appositamente designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione.” (Gofmann E., 1961, Asylums,.….., Doubleday, New York, pag. 35-36, citato in Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, pag. 49)

  17. organizzazione delle comunità Preoccupazioni[] • Non si parla nemmeno di aziende orientate ad attività economiche dedite agli affari; questo tentativo spesso sottende la volontà di delegittimare l’azione educativa messa in atto dalle comunità; certe volte, tuttavia, questo tentativo si sposa con una inconsapevole delegittimazione del proprio lavoro di educatore a causa di una visione personalistica del fatto educativo che riconduce tutto ad una relazione affettiva personale ed esclusiva con il minore.

  18. organizzazione delle comunità Fragilità[1] Le comunità, comunque, presentano delle fragilità: • Una inadeguata distribuzione del lavoro: alti carichi di lavoro, tempi di lavoro e di vita a volte inconciliabili, orari lunghi, scarsa mobilità, percorsi di carriera non ben definiti. • Alto tasso di turn overdegli operatori: costo enorme per la comunità (nuova formazione, perdita di competenze, frantumazione del gruppo di lavoro), si genera anche una ricaduta non positiva sulla riuscita dell’intervento educativo.

  19. organizzazione delle comunità Fragilità[2] • Rischio di sviluppare la sindrome del burn out: “Il burn out […] è un processo stressogeno, spesso legato alle persone che si occupano di aiutare il prossimo nella sfera sociale, psicologica, etc. Questi sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro personale e quello della persona aiutata. Se non opportunamente trattate, queste persone cominciano a sviluppare un lento processo di ‘logoramento’ o ‘decadenza’ psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato. Letteralmente burn out significa proprio ‘bruciare fuori’. Dunque è qualcosa d’interiore che esplode all’esterno e si manifesta. Il burn out è spesso legato alle difficoltà di realizzare una comunità di pratica in quanto non è ben chiaro quale sia l’impresa comune e quale l’impegno comune” http://www.ipasvi.laspezia.net/pubblicazioni/newsletter/burnout.pdf

  20. organizzazione delle comunità Fragilità[] • Scarsità di documentazione organizzativa prodotta: non si rende visibile e accessibile il proprio lavoro, così ne risente l’inserimento dei novizi (Un novizio che si avvia ad imparare un mestiere, una professione, una pratica è in una posizione di "partecipazione periferica legittimata“ (Wenger), ma la sua posizione diviene sempre più centrale quanto più l'esperienza e la partecipazione gli consentono di sviluppare abilità e conoscenze, cioè competenza (Pellerey).

  21. organizzazione delle comunità La leadership[1] • Spesso si rimuove la presa di coscienza dell’importanza di una leadership; spesso sembra che si ignori che esistano meccanismi di potere, di controllo sociale, di presa di decisioni si pensa che la leadership possa essere ricondotta ad una operazione che tacitamente sceglie il leader secondo carisma o fascinazione e tenendo conto di appartenenza ad identiche fedi ideali; • altre volte, si ricorre ad una esagerazione della prevalenza di coordinamento sociale, esageratamente basato su rapporti amicali e di sostegno reciproco, sul collante di una identica fede ideale che è espressa dal leader; • si dimentica che lo scopo ultimo è avere scopi comuni che tendono alla educazione di minori, e diviene prevalente sperimentare azioni collettive. • Invece …..

  22. organizzazione delle comunità La leadership[2] • esercitare la funzione di coordinamento significa tenere le redini di ciò che succede all’interno e avviare, coltivare rapporti con il mondo esterno (sociale, politico, economico); • significa saper vivere dentro un sistema complesso per trarre sostentamento e vita per la comunità; • occorrono: flessibilità, saper creare un gruppo affiatato, alimentare l’affiatamento, saper vivere nel tessuto sociale a contatto con le rete che può garantire la sopravvivenza, saper operare sul piano educativo per comprendere le esigenze dei minori.

  23. organizzazione delle comunità La leadership[3] In definitiva il coordinamento impone: • la gestione delle risorse umane (assunzioni, ferie, turnazione, dimissioni del personale, chi fa cosa, i sistemi di avanzamento della carriera e di premio, …) • il sostenere l’organizzazione a livello socio-politico-economico; • la gestione della cura e dell’azione educativa.

  24. organizzazione delle comunità La leadership[] • Il coordinatore (leader) è tutt’altro che una figura basata sullo spontaneismo e non può essere delegata ad assemblee familistiche, ma deve racchiudere in sé consapevolezza, sicurezza, capacità manageriali e conoscenza dei processi educativi*; il tutto con una flessibilità cognitiva ed operativa che permetta di gestire i complessi sistemi di interazione interna ed esterna. * in collaborazione con specifiche figure

  25. organizzazione delle comunità Il volontario e/o il nuovo educatore[1] • La figura del volontario da inserire nella comunità offre interessanti spunti di riflessione con l’aiuto di riferimenti alle comunità di pratica e, in particolare, alla partecipazione periferica legittimata (Wenger). Questa analisi può essere riferita anche alla figura di un educatore che, inesperto, entra nella comunità (in questo caso si pensa ad un educatore inesperto nei servizi nelle comunità e non a un nuovo educatore ‘trasferito’, che avrebbe solamente da conoscere le abitudini della nuova ma conosce i ferri del mestiere).

  26. organizzazione delle comunità Il volontario e/o il nuovo educatore[2] • “Un’identità non è un’idea astratta o un’etichetta, come un titolo, una categoria etnica o un tratto personale. È l’esperienza vissuta di appartenere […]” (Wenger E. C., 2006, Comunità di pratiche e siatemi sociali di apprendimento, pag. 43-44, citato in Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, pag. 460). • “la partecipazione periferica legittimata postula che un novizio, ovvero un volontario o un nuovo educatore, occupi inizialmente una posizione periferica rispetto alle attività della comunità (siano esse pratiche, materiali o discorsive) perché immerso in un processo di apprendimento i cui esiti non possono dirsi certamente scontati.” (Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012, pag. 60)

  27. organizzazione delle comunità Il volontario e/o il nuovo educatore[3] • Ovvio che occorre prestare la massima attenzione all’inserimento di nuove persone nella vita sociale e lavorativa della comunità e per un buono sviluppo competenziale del nuovo ma, e soprattutto, per l’equilibrio dell’intera comunità; • occorre, quindi, individuare quali possano essere i luoghi da frequentare inizialmente, le attività da svolgere e può essere utile o necessario prevedere degli opportuni passi formativi iniziali.

  28. organizzazione delle comunità Il volontario e/o il nuovo educatore[] • Al nuovo vanno garantiti tempi per capire l’orizzonte educativo, il linguaggio, le pratiche, le modalità di interazione, il modo di interpretare il mondo interno; in definitiva deve poter capire quale sia lo stile dello “stare dentro” quella comunità. • “Al volontario [o nuovo educatore], vanno concessi […] spazi pensati che possano tollerare il suo graduale apprendimento organizzativo, fatto di prove, errori, ripartenze, piccole conquiste, acquisizioni, innovazioni.” (Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012, pag. 65)

  29. organizzazione delle comunità Domande da porsi • Quali risorse rappresenta il volontario [nuovo educatore] per la mia comunità/servizio? • Quali problemi? • In quali attività della giornata/del servizio è inserito? Per quali ragioni? • In quali momenti della giornata? Perché? • Di quali strumenti è dotato il volontario per interpretare la realtà, il linguaggio, i riti della comunità di pratica? • Quale formazione è offerta al volontario per comprendere meglio che cosa succede in comunità? • Quali sono gli strumenti offerti per sintonizzarsi sulle pratiche degli educatori? • Come posso rendere il volontario [nuovo ..] attivamente competente nella logica di una partecipazione adeguata al suo ruolo e gradualmente sempre meno periferica? (Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012, pag. 65)

  30. organizzazione delle comunità • Strumenti, comunque previsti dalla normativa, idonei per orientare un nuovo verso la vita nella comunità sono: • il progetto educativo generale delle comunità; • il progetto educativo personalizzato; • il diario di bordo. Si ribadisce che la valenza degli strumenti sopra indicati non è solamente riferibile al loro utilizzo da parte dei novizi; sono documenti espressamente richiesti dalle norme ed esplicitano le prassi educative vissute nella comunità

  31. organizzazione delle comunità Progetto educativo generale[1] Nel progetto educativo generale vengono generalmente esplicitate le modalità: • di sostegno psico-socio-educativo del minore in collaborazione con la rete dei servizi territoriali per minori, finalizzato all’inserimento scolastico, sociale e lavorativo; • di cura della salute del minore (prevenzione, visite periodiche presso il medico curante);   • di gestione di particolari momenti di crisi del minore derivati da difficoltà di adattamento o da situazioni pregresse e/o contingenti;  • di predisposizione della scheda di ingresso del minore; • di predisposizione della cartella del minore, contenente tutta la documentazione psicosocio-educativa, giudiziaria e sanitaria del minore; 

  32. organizzazione delle comunità Progetto educativo generale[2] • di strutturazione e compilazione del diario di bordo dove si registrerà giornalmente l’attività svolta dai minori ed in particolare ogni evento significativo ai singoli percorsi di sostegno e recupero;  • organizzative e realizzative di attività sportive, ricreative, artistiche e formative, e di incentivazione della partecipazione del minore a queste;  • di partecipazione a progetti e laboratori, sul territorio, di orientamento verso l’acquisizione di competenze professionali per un eventuale avviamento al lavoro; • di sostegno alla genitorialità, rivolto alle famiglie dei minori ospitati; 

  33. organizzazione delle comunità Progetto educativo generale[] • di sostegno educativo finalizzato a guidare l’eventuale rientro del minore in famiglia e nel proprio contesto di appartenenza nell’imminenza delle dimissioni; • di sostegno al minore dimesso, attraverso un servizio di interventi domiciliari;  • di predisposizione di quant'altro occorra per assicurare il regolare funzionamento della struttura e per le necessità degli utenti; vengono anche presentati: • lo sviluppo della giornata tipo nella comunità e • la struttura della comunitàun esempio (da conoscere; è possibile rintracciare altro progetto educativo in sostituzione di questo).

  34. organizzazione delle comunità Progetto educativo personalizzato[1] • Per ogni accoglienza va creato, aggiornato e condiviso un PEP contenente obiettivi, modalità di intervento educativo e anche metodi di verifica (legge 149/2001, D.M. 308/2001, art. 5). • Informazioni contenute in un PEP: • dati anagrafici, • obiettivi del progetto, motivazioni dell’intervento, durata; • data e motivazione dell’inserimento nella struttura; • composizione familiare; • situazione sanitaria; • situazione scolastica/lavorativa.

  35. organizzazione delle comunità Progetto educativo personalizzato[] • Viene compilato dopo un periodo di osservazione; • ha una struttura dinamica; può essere modificato nel tempo in base all’evoluzione del minore, ma anche in base a revisioni/sistemazioni teoriche degli operatori; ciò che si scrive nel PEP è strettamente connesso con la visione professionale degli operatori; in genere si scrive a più mani ma, anche quando viene scritto da un solo operatore, riflette necessariamente la storia di percorsi sociali che si è tradotta in teorie; inoltre diventa uno strumento per il gruppo; • è un atto professionale che si realizza nella relazione fra educatori e minore; • un PEP diventa uno strumento indispensabile per ciascun nuovo operatore: attraverso esso entra in contatto con la comunità, con i suoi trascorsi di teorie e repertori educativi, con le pratiche professionali degli altri educatori; nel suo percorso dalla periferia verso il centro il nuovo potrà significativamente giovarsi del PEP.

  36. organizzazione delle comunità Domande da porsi • Quali contenuti sono rilevanti per il PEP? • Che finalità ha all’interno delle mie pratiche quotidiane? • Quali obiettivi? • Chi lo scrive? Attraverso quali fasi? Con quali tempi? Dopo quanto tempo dall’inserimento del minore? • Quali destinatari? È possibile un coinvolgimento del minore e della sua famiglia? • Il PEP rappresenta un documento di sola interazione interna o una risorsa per la rete (scuola, assistenti sociali, ..)? • Quali e quanti aggiornamenti? Ogni quanto tempo? Per quali ragioni? • Come e in quale misura condivido il PEI con i miei colleghi? In quali occasioni/momenti dedicati? Come lo aggiorniamo insieme? • Come sono inseriti elementi per la valutazione del cambiamento del minore? • Quali azioni educative e organizzative apporto per ogni PEP e come strutturo il lavoro mio e dei miei colleghi? (Saglietti M., Organizzare le case famiglia, Carocci, 2012, pag. 70-71)

  37. organizzazione delle comunità Diario di bordo • Diario dove si registrerà giornalmente l’attività svolta dai minori ed in particolare ogni evento significativo ai singoli percorsi di sostegno e recupero;  • gli operatori vi verbalizzano quotidianamente i fatti accaduti nell’arco della giornata, significativi rispetto al percorso del minore; • possiamo definirlo come il passaggio di consegne (in riferimento ai minori) tra i membri dell’equipe ed allo stesso tempo l’espressione per i minori di un interlocutore, quanto più possibile unico, con cui relazionarsi.

  38. organizzazione delle comunità Agenda degli educatori • Esiste, in genere, nelle comunità ed • è uno strumento organizzativo; in esso vengono annotati gli impegni e le comunicazioni fra i soggetti della comunità; • contiene, in genere, messaggi: • rivolti ad altri educatori; • rivolti al generico lettore dell’agenda.

  39. organizzazione delle comunità Gli spazi[1] • Le norme nazionali stabiliscono, in riferimento alla strutturazione degli spazi, solamente che le strutture debbono essere facilmente raggiungibili e debbono prevedere spazi di socializzazione distinti dalle camere; • comunque le diverse associazioni di comunità hanno stabilito una serie di norme così riassumibili: • spazi distinti per équipe educativa, comunità e ragazzi; • locale adeguato come cucina; • limite massimo di posti letto per stanza; • un locale comune accessibile a tutti; • disponibilità di bagni accessibili ai disabili, • attrezzature accessibili ai disabili.

  40. organizzazione delle comunità Gli spazi[2] • In definitiva, si possono distinguere spazi: • per educatori (sia privati che di lavoro), • comuni, accessibili sia singolarmente che in gruppo, • privati per i minori. • Occorrerebbe rifuggire dalla logica del panopticon, dove tutto è controllabile; se non esiste uno spazio per le riunioni degli educatori, queste dove si tengono? Nella cucina o nella stanza da letto dell’educatrice (delle educatrici)? Se l’educatore deve rispondere ad una telefonata su un minore, dove si rifugia in bagno o nella stanza di una collega (se ad esempio l’educatore non ‘risiede’ nella comunità)?

  41. organizzazione delle comunità Gli spazi[] • La mancanza di un luogo privato riservato al gruppo di lavoro, rivela una mancanza di senso della natura organizzativa della comunità. Sembrerebbe che tutto debba essere ricondotto ad azioni singole, isolate, a responsabilità educativa personale.

  42. organizzazione delle comunità Domande da porsi • Nella struttura dove lavoro, gli spazi sono pensati e organizzati adeguatamente? • Quali sono e come sono strutturati gli spazi privati per gli educatori? • Quali sono e come sono strutturati gli spazi privati dei ragazzi? • Come sono gestite le chiavi delle stanze? • Come sono strutturati gli spazi comuni e quali attività rendono possibili (giochi, cene con ospiti, compiti insieme, …)? • Quali opzioni per migliorarli nel loro utilizzo pratico? • Quali innovazioni si possono apportare (nella strumentazione, nelle decorazioni, nelle proposte di nuove attività) si possono apportare?

  43. comunità e famiglia Comunità e famiglia • In campo psicologico, sociologico e pedagogico, esiste un filone di studio e ricerca che predica che un significativo legame fra comunità e famiglia costituisca di per sé una buona possibilità di successo del processo di evoluzione e della famiglia e del figlio allontanato. • Tale buon rapporto non matura spontaneamente ma occorre mettere in atto opportuni interventi. In questo contesto non si fa riferimento a quelle famiglie che ‘si ritiene’ non siano più adatte a realizzare una prospettiva educativa per il minore)

  44. comunità e famiglia Comunità e famiglia • Nella logica enunciata: • pensare di mantenere dei forti contatti con la famiglia di origine, significa porsi nella logica di finalizzare l’azione educativa alla riunificazione familiare (negli Stai Uniti il 57% dei minori rientrano in famiglia, in Italia il 52%); • occorre considerare il rientro in famiglia come prodotto finale e come processo e, • considerarlo come processo, significa pensare al periodo nella comunità come un tempo aperto a continue interazioni con i genitori per riabituarli alla genitorialità (abituarli ad una migliore genitorialità) e a radicare nel minore la piena appartenenza alla propria famiglia; • così facendo si realizza una connessione del ragazzo con la propria storia ed una costruzione di un maggior senso di identità.

  45. comunità e famiglia Comunità e famiglia • La comunità non metterà in campo momenti e strategie di cura rivolte al minore, ma anche alla famiglia; • la comunità opera sulla quotidianità, cioè sulla possibilità di conoscere il minore nella sua vita quotidiana, di osservarlo, di capirlo; acquisisce delle informazioni che possono essere narrate al genitore, restituendo una immagine che probabilmente è diversa da quella che il genitore ha costruito.

  46. comunità e famiglia Comunità e famiglia • Nella sua relazione (professionale) con il minore, sostenuta da osservazioni, l’educatore assume continue informazioni che lo aiutano nella costruzione del suo profilo; il genitore, forse distratto, non ha compreso come suo figlio si comporta in determinate situazioni, non ha capito e/o non ha conosciuto le sue conquiste e le modalità per raggiungerle; il racconto dell’educatore può fornirgli punti di vista differenti, ottiche nuove, la possibilità di analisi multiple delle situazioni, in definitiva restituisce una immagine probabilmente nuova per il genitore; una immagine che può far capire che esistono approcci relazionali diversi, che può permettere una ricostruzione del proprio profilo genitoriale.

  47. comunità e famiglia Comunità e famiglia • Operando in questo modo la famiglia diviene la protagonista del processo di intervento sul minore; ciò comporta che anche essa diventi soggetto da rieducare. • Comunque esistono, agli estremi, due modelli che esplicitano il rapporto con la famiglia: quello sostitutivo e quello coevolutivo

  48. comunità e famiglia Comunità e famigliamodello sostitutivo • In questo caso la famiglia è considerata inadeguata e dannosa; l’educatore “riconosce la significatività delle relazioni familiari per l’utente e l’influenza che esse esercitano su di lui, ma non considera la famiglia una risorsa per potenziare gli interventi promossi dagli operatori. Nel modello della sostituzione, la famiglia diventa infatti un soggetto da contrastare: l’operatore concepisce infatti il proprio intervento come alternativo o correttivo rispetto a ogni possibile influenza esercitata dalla famiglia dell’utente. […] Tale influenza viene contrastata tramite l’inserimento dell’utente stesso in un ambiente, quello dell’operatore, che invece è ritenuto adeguato a fornirgli le risorse di cui abbisogna; la richiesta più o meno esplicita che viene fatta alla famiglia è quella di astenersi dal prendere iniziative, permettendo così all’operatore di condurre in porto l’intervento progettato. […] Nel modello della sostituzione, la valutazione di inadeguatezza della famiglia costituisce una sanzione senza possibilità di appello” (Fruggeri L., 1997, Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psio-sociali, Carocci, Roma, citato in Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 128) Come già detto in precedenza, in questo contesto non si fa riferimento a quelle famiglie che ‘si ritiene’ non siano più adatte a realizzare una prospettiva educativa per il minore)

  49. comunità e famiglia Domande Saglietti M., 2012, Organizzare le case famiglia, Carocci, Roma, pag. 129

  50. comunità e famiglia Comunità e famigliamodello coevolutivo • In questo modello l’azione educativa ha una dimensione maggiormente sistemica in quanto include anche il contesto familiare; questo viene coinvolto fin dall’inizio e i contatti proseguono durante l’intervento, producono riprogettazioni in itinere. L’operatore è consapevole che qualunque suo intervento è familiare, a partire dall’allontanamento, per proseguire con tutte le attività di cura dentro alla comunità, per proseguire e concludersi con gli interventi che tendono a far riacquistare ai genitori la loro funzione di genitorialità che ha come fine il ritorno del minore nella sua famiglia di origine, ora ‘rivista’ e ‘aggiornata’.

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